ALBA - Dalla Siria alla Granda, l'eco di una guerra dimenticata: “È peggio di quando si combatteva”

In collegamento con Alba anche il figlio di Khaled al-Asaad, il custode di Palmira trucidato dall’Isis. Suor Yola Girges: “Mai vissuta una povertà come quella di oggi”

Andrea Cascioli 17/05/2022 09:30

A vederlo così compassato e privo di turbamenti, anche se serio in volto, non si direbbe che Tark Khaled al-Asaad stia rievocando la scena più spaventosa che un uomo possa figurarsi: l’assassinio di suo padre.
 
La sua voce arriva dalla Siria ad Alba, riempie la sala dove - in una domenica pomeriggio come tante - alcune decine di persone si sono radunate per sentir parlare di una guerra che ha perso, ai nostri occhi assuefatti, molto del suo funesto “appeal”. Tark Khaled al-Asaad è il figlio di quel Khaled al-Asaad che è stato per oltre quarant’anni il custode di Palmira, fautore dell’inserimento del sito archeologico nell’elenco dei patrimoni dell’Unesco e autore di una ventina di libri sulla città di Zenobia. Uno dei numi tutelari dell’archeologia contemporanea, trucidato a 83 anni per mano dell’Isis che avrebbe fatto a pezzi anche la memoria monumentale della città: il tempio di Baalshamin, il tempio di Bel, l’arco monumentale romano di cui solo in questi giorni è cominciato il restauro, sotto la supervisione del Dipartimento dei Beni culturali siriano, dell’Accademia di Scienze russa e dell’Unesco.
 
“Quando i barbari del nuovo millennio sono arrivati a Palmira - racconta il figlio - hanno portato via mio padre e lo hanno tenuto prigioniero per un mese perché svelasse dove si trovavano i tesori nascosti della città”. Il vecchio direttore del museo, però, non aveva voluto rivelare nulla, nonostante le torture. Poi, il 18 agosto del 2015, i miliziani lo avevano trascinato in piazza, dove una folla si sarebbe radunata all’uscita dalla preghiera in moschea: “Come ultimo desiderio ha domandato di rivedere il mausoleo per cinque minuti, prima di morire. Quando gli è stato chiesto di inginocchiarsi per l’esecuzione ha risposto: ‘Non mi inginocchio, rimango in piedi come le colonne di questa città’, perciò è stato colpito alla gamba e poi decapitato. Il corpo è stato lasciato agli animali randagi nei tre giorni successivi. Mi chiedo, è questa la libertà alla quale Obama e la Clinton ci volevano destinare?”.
 
La stessa domanda, polemica ma non scontata, percorre tutti gli interventi del convegno intitolato “Lo stupro della Siria”, promosso dall’assessorato alla Cultura albese e condotto dai giornalisti Claudio Puppione e Pietro Giovannini. Perché gli oltre undici anni di guerra hanno insegnato che di buoni e cattivi, fuori dai cinema, è difficile individuarne. La cosiddetta “primavera araba” che in Tunisia era divenuta un afflato di libertà, in Libia un regolamento dei conti tra clan e in Egitto uno scontro tra militarismo laico e Islam politico, si è rivelata per la Siria - e per lo Yemen, teatro ancor più dimenticato - un incubo lungo più di un decennio. L’etichetta della guerra civile ha fatto da paravento allo scontro tra potenze sulla pelle dei siriani e all’insorgere di un settarismo religioso armato, che nell’Isis ha trovato solo la più estrema delle sue molteplici, cruente espressioni. Quando l’Occidente se n’è reso conto, passata la sbornia interventista, era ormai troppo tardi per richiudere l’“autostrada della Jihad” spalancata dalla Turchia.
 
Il fotoreporter Giorgio Bianchi, attivo su molteplici scenari internazionali tra cui la Siria e l’Ucraina, accusa in primo luogo il mondo dell’informazione: “Alcune discrepanze macroscopiche tra la narrazione dei media e la realtà sul campo le avevo constatate a Maidan pochi mesi prima, ma quello che ho visto in Siria è inimmaginabile”. Solo la settimana scorsa è stato proiettato a Roma il documentario sulla Siria che lui ha contribuito a realizzare con Rai Cinema: “È forse il primo documentario nel mondo occidentale dove si parla della Siria dal punto di vista dei siriani. Per realizzarlo ho passato moltissimo tempo con i soldati a Deir Ezzor, sulla sponda est dell’Eufrate: qui ho potuto vedere come l’esercito siriano sia davvero un mosaico di popolazioni. La narrazione che è stata fatta sul conflitto non rende minimamente giustizia e verità alla realtà dei fatti”. Un documentario più breve per la trasmissione Petrolio della Rai, mai mandato in onda, avrebbe dovuto raccontare proprio la figura di Khaled ad-Asaad e i saccheggi del patrimonio archeologico da parte dei ribelli: “La verità è che se la Siria continuerà a esistere così com’è lo si deve solo all’eroica resistenza del popolo siriano”.
 
Ne è convinto anche Ouday Ramadan, siriano di famiglia alawita (la minoranza islamica di cui fa parte la famiglia Assad, ndr), cresciuto in Libano ed emigrato decenni fa in Italia: “Il governo siriano non è per me un’ispirazione politica e io stesso ho pagato il dazio alla presenza della corruzione, venendo esiliato per molti anni. Ma non è un motivo per buttare il bambino con l’acqua sporca, sarebbe come sostenere che sia giusto bombardare i palazzi del governo in Italia perché è esistita Tangentopoli”. Ciò che si è difeso con forza dall’offensiva islamista, spiega, è soprattutto un principio laico di governo, improntato alla coesistenza tra religioni ed etnie: “Dio è per ognuno di voi e la patria e per tutti”, è il motto. Fin dall’inizio, invece, la rivolta si sarebbe caratterizzata per la forte connotazione confessionale, all’insegna del funesto slogan “cristiani a Beirut, alawiti nella tomba”: “La prima vittima della cosiddetta rivoluzione è stato un fruttivendolo di Baniyas, linciato a sangue freddo perché alawita. A Jisr al-Shougur, nel giugno 2011, dopo l’assalto a una caserma un’ottantina di poliziotti vennero decapitati e gettati nel fiume Oronte”.
 
Da Nazareth giunge infine la testimonianza di suor Yola Girges, francescana, per quasi un decennio superiora del Memoriale della Conversione di San Paolo a Damasco: “Abbiamo ancora la speranza che qualcosa cambi: io vengo da un villaggio nella provincia di Idlib, alla frontiera con la Turchia, a tutt’oggi nelle mani dei gruppi islamisti. Qualcosa in effetti è già cambiato, ma anche oggi ho paura di salire su un taxi a Damasco se l’autista ha la barba (segno distintivo per gli islamisti militanti, ndr). Negli anni trascorsi nel quartiere di Tabbaleh, una zona popolare di Damasco a maggioranza cristiana, suor Yola ha visto morire sotto i missili tante persone che conosceva: “Un’intera generazione di bambini ha aperto gli occhi al mondo in mezzo alle bombe. Nel nostro asilo, con 150 bambini, mettevamo musica e facevamo ballare i bambini quando sentivamo i bombardamenti, cercando di cambiare il rumore della guerra in un suono di pace”. I progetti educativi portati avanti hanno riguardato anche bambini che venivano dalla Ghouta, la periferia damascena divenuta roccaforte dei miliziani: “Questi bambini non hanno nessuna colpa e se li lasciamo per la strada saranno la futura Isis. Sono quelli che più hanno guadagnato dal nostro progetto e non volevano tornare nella Ghouta neanche dopo la liberazione: ci hanno detto che gli era stato insegnato che i cristiani erano bestemmiatori e meritevoli di morte, invece sono stati accolti come persone”.
 
Può sembrare paradossale, ma lo strano “dopoguerra” consolidatosi in buona parte dei Paese, dove non si sentono più esplosioni, è perfino peggio del conflitto aperto in termini di devastazione sociale: “Durante i dieci anni di guerra non abbiamo mai vissuto una povertà paragonabile a quella di oggi. Di recente sono tornata un mese in patria e non credevo alla miseria che avevo di fronte: ho visto una donna andare al mercato per comprare solo due cetrioli, a causa dei rincari nei prezzi. Le sanzioni hanno messo il popolo siriano in ginocchio: non c’è benzina, non c’è gasolio, l’elettricità arriva due ore al giorno”. Chi è malato vive il dramma della sofferenza insieme a quello della privazione: “A Damasco ho conosciuto una famiglia che ha venduto un terreno per pagare a un parente una sola seduta di chemioterapia: prima della guerra la terapia anticancro era gratuita”. Eppure, spiega la religiosa, il popolo non si perde di speranza: “C’è chi ha creato dei ventilatori che si caricano e che possono funzionare anche quando manca la luce. In Siria oggi succedono miracoli, è un miracolo il fatto stesso che la Siria possa sopravvivere”.

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