CUNEO - Cara Regione, tre bambini ricoverati sono troppo poco per pulirsi la coscienza su Gaza

Di fronte all’orrore senza fine la politica, anche locale, non può limitarsi ad azioni umanitarie ma deve pretendere che Israele si fermi. Smettendo di esserne complice

Andrea Cascioli 16/06/2025 08:15

È notizia di alcuni giorni fa, ampiamente pubblicizzata dagli uffici stampa della Regione Piemonte, che l’ospedale pediatrico Regina Margherita di Torino ha accolto tre bambini arrivati dalla Striscia di Gaza su un aereo speciale. Sono un bimbo di 8 anni con ferite da esplosione, ustioni e lesioni multiple, uno di due anni con una rara malformazione congenita al cuore e una di tre anni con cardiopatia congenita e immunodeficienza.
 
Viaggiavano insieme ad Adam al Najjar, suo malgrado il più “famoso” della comitiva di sfortunati: è l’unico sopravvissuto a un bombardamento che ha ucciso i suoi nove fratelli e il padre, i cui corpi smembrati e bruciati sono stati ritrovati sotto le macerie. Si è salvata solo la madre, medico pediatra come quelli che hanno accolto Adam al Niguarda di Milano. I tre piccoli ricoverati a Torino, Aser, Maryam e Asaad, accompagnati per mano dal presidente Alberto Cirio, si aggiungono ad altri sei bambini palestinesi già accolti nei mesi scorsi al Regina Margherita. Tutto ciò nell’ambito del progetto di cooperazione internazionale “Food for Gaza” che la Regione Piemonte ha promosso con il Ministero degli Esteri.
 
Iniziativa lodevolissima e che una volta di più rende tutti noi orgogliosi della sanità piemontese. Ora, se stessimo parlando dell’azione di una onlus, di una fondazione privata o perfino di un singolo benefattore, la notizia sarebbe finita qui, con tanti complimenti agli artefici. Ma la Regione Piemonte non è nessuna di queste cose: è un’istituzione, che opera sul piano della politica oltre che su quello, pur fondamentale, della cooperazione umanitaria. E arrivati a questo punto della carneficina in atto è il momento di dire con chiarezza che il vero tema è la complicità delle istituzioni a qualsiasi livello.
 
Dall’inizio del conflitto fino all’11 giugno scorso a Gaza sono morte almeno 55.104 persone, secondo stime validate dall’Ufficio per gli affari umanitari dell’Onu che potrebbero essere in realtà molto al ribasso: uno studio della rivista medica The Lancet ipotizza che il computo, in base alle cartelle cliniche, ai necrologi e alle segnalazioni online, potrebbe oscillare tra 77mila e 109mila vittime, pari al 4-5% della popolazione complessiva della Striscia. Secondo l’Unicef più di 50mila bambini sono stati uccisi o feriti: solo dalla fine del cessate il fuoco, il 18 marzo, si contano 1.309 minori uccisi e 3.738 feriti. Oltre a loro hanno perso la vita in due anni 463 operatori umanitari - compresi 319 membri dello staff delle Nazioni Unite - e 230 giornalisti. Non hanno suscitato reazioni politiche, passata la ventata di sdegno passeggero, autentici crimini di guerra come l’assedio dell’ospedale al Shifa o l’assassinio a sangue freddo di quindici soccorritori della Mezzaluna Rossa, falciati dai proiettili all’interno delle ambulanze a Rafah e gettati in una fossa. E ancora, le sparatorie nei centri di distribuzione del cibo della Gaza Humanitarian Foundation, unico organismo umanitario autorizzato a operare dall’IDF, che hanno provocato finora 36 vittime e oltre 200 feriti.
 
Ma non è “solo” questo, il fatto che l’82% del territorio di Gaza sia sotto occupazione militare o che a una popolazione di 2,4 milioni di persone, sotto embargo totale, siano distribuite 8mila scatole di cibo al giorno. C’è la violenza delle forze armate e dei coloni in Cisgiordania, dove Hamas non governa, con una media di cinque bambini uccisi o feriti ogni giorno solo nel primo anno del conflitto secondo Save the Children. Ci sono i bombardamenti in Libano continuati anche dopo il cessate il fuoco, c’è l’occupazione militare di una parte della Siria che prosegue nonostante le rassicurazioni sulla non ostilità ad Israele fornite dal nuovo governo. C’è, infine, la folle aggressione all’Iran: giustificata in base ai timori sul mancato rispetto degli accordi sul nucleare, da parte di un Paese che un arsenale atomico illegale ce l’ha già da decenni. Israele non aderisce al trattato di non proliferazione e controlla testate nucleari nel sito di Dimona, dove non ha mai consentito ispezioni all’Aiea, l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica.
 
Affari loro, diranno i cinici da tastiera che ci tengono a far sapere di conoscere “come gira il mondo”. E invece no, sono affari nostri nel senso più letterale del termine: l’Unione Europea è infatti il primo partner commerciale di Tel Aviv, a cui fornisce il 38% dei beni e da cui acquista circa il 30% delle merci. Scambi regolati da un accordo, risalente al 2000, che all’articolo 2 prevede il rispetto dei diritti umani come elemento fondamentale per il suo mantenimento. Nei giorni scorsi alcuni Paesi europei, di fronte al genocidio di Gaza, hanno proposto una sospensione e radicale revisione di quell’accordo. Il governo italiano è stato fra i pochissimi ad opporsi, contribuendo a rinviare la decisione.
 
Due regioni italiane, la Puglia e l’Emilia Romagna, hanno interrotto le relazioni istituzionali con Israele a fronte di quanto accaduto. Una decisione più simbolica che economica, non essendoci accordi in essere. Ce ne sono invece in Piemonte, firmati nel 2022 tra la società in house della Regione Ceipiemonte e la start up Margalit per lo sviluppo della collaborazione tra imprese. Il Piemonte che oggi con una mano accompagna tre bambini in pediatria, facendone i protagonisti di uno spot sanitario, e con l’altra si copre gli occhi mentre altri Aser, Maryam e Asaad muoiono seppelliti dalle macerie o annientati dalla fame.

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