CUNEO - Confindustria celebra i vent’anni della legge Biagi e chiude le porte al salario minimo

A Cuneo l’ex ministro Sacconi ricorda il giuslavorista ucciso dalle Br: “Neanche a destra fu capito”. Giuliana Cirio: “La contrattazione sui salari non va abbandonata”

Andrea Cascioli 20/09/2023 18:25

Ci sono anniversari che non possono non fomentare polemiche e tra questi figurano senza dubbio i vent’anni dall’approvazione della riforma Biagi. Uno spartiacque, comunque la si voglia vedere: per i sostenitori fu un tentativo coraggioso di agganciare la realtà, quella di un mondo dove il posto fisso stava già diventando una chimera del passato e il tema della bassa occupazione si faceva drammatico. Per i critici, il primo culmine di un progressivo smantellamento dei diritti dei lavoratori a vantaggio delle imprese (anche se sul punto più conteso, il colpo di spugna sull’articolo 18, bisognerà attendere il jobs act del Pd).
 
Confindustria Cuneo ha celebrato la legge 30 del 2003, varata a undici mesi di distanza dall’assassinio di Marco Biagi da parte delle Brigate Rosse, con un pomeriggio di studi aperto dall’intervento di Maurizio Sacconi. Ovvero dal maggiore interprete politico, in veste di coautore del Libro bianco sul lavoro e di sottosegretario del governo Berlusconi (più tardi divenuto ministro), dell’eredità lasciata dal giuslavorista bolognese: “Marco Biagi era un visionario, intuì che la fase della seconda rivoluzione industriale si andava esaurendo e che i lavoratori avrebbero riacquistato un volto, rispetto alla condizione numerica in cui li aveva relegati il fordismo”. Eppure, aggiunge, “fu compreso ma detestato dalla sinistra, mentre la destra lo ha amato ma non sempre compreso”: questo perché, spiega l’ex forzista, “a sinistra c’è cultura del lavoro ma in senso molto ideologico. A destra, invece, la cultura lavoristica è sempre stata più debole”.
 
Biagi padre della deregulation selvaggia e del lavoro precario? Neanche per sogno, protesta lo storico sodale: “È stato ucciso sulla base di una campagna contro la precarizzazione, quando la precarietà era immanente e lui cercava invece di farla emergere. Biagi dava come obiettivo del libro bianco e poi della legge, cui sarebbe dovuto seguire lo statuto dei lavori, ciò che chiamava ‘società attiva’, fatta di alta occupazione. Una società che non scarta le persone, ma dà ad esse l’opportunità di un lavoro di qualità”. Se così è, nei vent’anni successivi qualcosa dev’essere andato storto: a dispetto dell’occupazione in aumento, le cronache di ogni giorno ci parlano di lavoro povero, subappalti e false partite Iva, stipendi da fame - o quando proprio va bene, tanto per menzionare un caso cuneese che ha avuto risalto nazionale, transumanze da un capo all’altro del Paese per inseguire un impiego.
 
Per Sacconi il problema è diverso: “Siamo una società in cui ormai si può parlare di crisi dell’offerta, determinata da un declino demografico, dal mismatching educativo e dalla crisi della cultura del lavoro. Ci sono persone che chiamate al lavoro non lo accettano, preferendo il sussidio e magari la possibilità di sommare qualche altra microattività”. La scuola, dice, ha le sue colpe, anzi ce l’ha “il disastro educativo generato dagli anni Settanta che può essere recuperato soprattutto spezzando l’autoreferenzialità dell’impresa e costringendolo a misurarsi con le imprese”. Anche con l’alternanza scuola-lavoro, oggi al centro di molte polemiche: “L’apprendistato in Italia non è decollato perché lo si è irrigidito con regole e attività ispettive che espongono molto il datore. Un incidente stradale (allusione a quello costato la vita nel 2022 al sedicenne Giuseppe Lenoci durante uno stage, ndr) non può essere un motivo per rinunciare a questi meccanismi di inclusione”.
 
Ma davvero è colpa dei famosi “giovani che non vogliono lavorare”? Non proprio: “Tante cose hanno influito su questo punto, compresa la recente vicenda pandemica: le difficoltà logistiche e di conciliazione tra vita e lavoro, o il fatto che si sono determinate spaccature profonde tra le città dei servizi e il resto del Paese”. Servirebbe, sostiene l’ex ministro, un sistema che metta in concorrenza gli intermediari del lavoro, cioè proprio quel settore che la Biagi ha liberalizzato: “Penso a meccanismi come la dote lavoro della Regione Lombardia. A una persona che vorrebbe lavorare si fornisce una dote che può scegliere di destinare a qualcuno nella misura in cui riesce davvero a collocarlo. Non solo le agenzie interinali, ma anche le associazioni di categoria, gli enti bilaterali fra sindacati e datori di lavoro o i patronati”. E poi c’è la solita questione del divario tra nord e sud: “Biagi esaltava nel lavoro la dimensione territoriale e aziendale. Il lavoro non si regola da Roma”. Sacconi dice di non pensare alle vecchie gabbie salariali, troppo rigide e “stataliste”, ma a un sistema di contratti territoriali definiti dalle parti: “Si potrebbe pensarne uno apposta per la città di Milano, con l’obiettivo di alzare i compensi. Come si può fare il cameriere a Milano lo stesso stipendio di una città di provincia?”.
 
Altra cosa è il salario minimo, rispetto al quale la contrarietà è netta: “Il problema dell’Italia non è il salario minimo ma quello mediano, che è sempre stato troppo basso. Il lavoro povero è una somma di situazioni, non si può pensare di risolverlo fissando i nove euro di compenso perché il rischio, come ha intuito la Meloni, sarebbe uno schiacciamento su quel livello. Per questo il sindacato ha sempre temuto la tentazione di ‘mettersi a posto’ col salario legale: solo la contrattazione territoriale e aziendale può far crescere i salari”. Sul no al salario minimo era intervenuta in apertura anche il direttore di Confindustria Cuneo Giuliana Cirio: “Dobbiamo prendere atto del rischio che il diritto del lavoro si avvii ad abbandonare il principio della libera contrattazione, perfino per quanto riguarda il negoziato sui salari. Il nostro timore è che si ceda a una ‘nazionalizzazione’ del diritto del lavoro proprio a cominciare dai salari”.

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