CUNEO - “La mafia cambia con il mondo. Anche nella nostra provincia ‘felice’”

Il procuratore capo di Cuneo, Onelio Dodero, parla degli anni da pm antimafia: “Grazie alle inchieste oggi sappiamo dove Cosa Nostra prese l’esplosivo per le stragi”

Andrea Cascioli 17/08/2021 11:15

Per sei anni è stato al vertice della Procura di Caltanissetta, forte dell’esperienza precedente maturata alla Direzione Distrettuale Antimafia di Torino. In questa veste Onelio Dodero ha portato avanti uno dei processi di mafia più importanti degli ultimi anni, quello contro gli organizzatori materiali della strage di Capaci nella quale persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato, e i tre agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.
 
Il cosiddetto “Capaci bis” si è concluso nel 2016 con le condanne all’ergastolo di Salvatore Madonia, Cosimo Lo Nigro, Giorgio Pizzo e Lorenzo Tinnirello e l’assoluzione di Vittorio Tutino. Verdetto confermato lo scorso anno dalla Corte d’Assise d’Appello. Ad avviare le indagini, nel 2008, erano state le dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza, ex mafioso della famiglia di Brancaccio, riguardo ai preparativi della strage. Spatuzza aveva rivelato ai magistrati di Caltanissetta di essersi recato a Porticello, località del comune di Santa Flavia sulla costa palermitana, per reperire l’esplosivo utilizzato nella strage del 23 maggio 1992. Questo accadeva circa un mese prima dell’attentato: insieme a Spatuzza, all’incontro con un certo Cosimo sarebbero stati presenti altri mafiosi provenienti da Brancaccio e Corso dei Mille. Cosimo aveva consegnato loro alcuni ordigni bellici, residuati della seconda guerra mondiale, che aveva recuperato in mare. Spatuzza dichiarò che i residuati erano stati portati in un magazzino dove gli “uomini d’onore” avevano provveduto ad estrarre l’esplosivo dalle bombe, travasarlo in sacchi della spazzatura e consegnarlo poi a Giuseppe Graviano, reggente del mandamento di Brancaccio con il fratello Filippo e stratega di Cosa Nostra.
 
 
La strage di Capaci? “Nessun complotto di Stato. Fu opera di Cosa Nostra”
 
Il processo Capaci bis ha avuto il merito di appurare una verità storica sulla provenienza dell’esplosivo utilizzato sia nell’attentato a Falcone che nelle successive stragi. Dopo quasi tre decenni di sospetti sulle connessioni con servizi segreti deviati, Gladio, massoneria e apparati dello Stato, ora sappiamo che non furono coinvolti soggetti estranei a Cosa Nostra. E anche che quel colpo al cuore dello Stato, come il successivo omicidio di Paolo Borsellino e della sua scorta in via d’Amelio, era in realtà il segno che il potere di Totò Riina si stava sgretolando dalle fondamenta: l’attentato fu organizzato alla svelta, in maniera artigianale. Il “capo dei capi” aveva fretta perché nel frattempo il maxiprocesso di Palermo era giunto a sentenza definitiva e il parlamento aveva approvato il regime carcerario duro del 41bis. Fu allora che il boss dei corleonesi decise di dichiarare guerra allo Stato, affidandosi alla brutalità di Giovanni Brusca.
 
Ma allora perché nella coscienza collettiva del Paese sembra esserci tanta difficoltà ad ammettere la natura compiutamente mafiosa delle stragi? Il grande accusatore del Capaci bis, oggi procuratore capo a Cuneo, ha una sua risposta: “Capaci e via d’Amelio sono stati due eventi terribili ma eccezionali: nessuno di noi era preparato a un attacco di quel genere. Ed è ovvio che psicologicamente non si riesce ad ammettere che a realizzarli sia stato un gruppo di criminali, e soltanto un gruppo di criminali”. La scoperta che la mafia aveva utilizzato esplosivo militare per far saltare in aria un pezzo di autostrada giustificava, del resto, l’idea che i picciotti non potessero aver fatto tutto da soli: “In un Paese abituato a episodi stragisti era ovvio che si pensasse subito a rapporti scivolosi di Cosa Nostra con apparati deviati dello Stato o con organizzazioni di caratura internazionale”. Solo dal 1997 - e poi in modo più evidente con il processo Capaci bis - diventerà chiaro che Cosa Nostra era andata a prendere in mare i venti chili di tritolo utilizzati per confezionare le bombe in Sicilia e nel continente: era la “cassetta del pesce” cui alludeva il pescatore Cosimo D’Amato, cugino del boss Cosimo Lo Nigro, l’uomo che consegnò gli ordigni bellici a Spatuzza e compagni. Una conferma indiretta arriverà anche dalle intercettazioni disposte a carico di Totò Riina in carcere.
 
All’indomani della requisitoria contro gli stragisti, l’associazione antimafia Rita Atria aveva stigmatizzato le dichiarazioni del procuratore nisseno sui complottismi fioriti attorno alle ricostruzioni dei fatti criminali. “Nel processo quello che non è provato non esiste” ribatte Dodero, riprendendo una frase cara a Pier Luigi Vigna: “Nessuno esclude che ci possano essere stati aiuti, che possono avvenire in tantissime forme. Ma da pubblico ministero non posso aderire a tesi di complotto, se processualmente non provo il complotto”. Qui si ripropone il tema, infinite volte dibattuto, del rapporto tra la verità processuale e la verità storica: “Esiste un’analogia tra il pubblico ministero e lo storico perché tutti e due lavorano sul passato. La differenza è che lo storico ricostruisce i fatti sia sui documenti sia fornendo ad essi un’interpretazione: può agire con ipotesi, anche con suggestioni, cosa che non è consentita al pubblico ministero. Noi non possiamo superare i confini del percorso probatorio nel momento in cui ci domandiamo se qualcosa è avvenuto oppure no”.
 
 
“Quella di Falcone e Borsellino era una mafia che si mostrava. Poi si è trasformata”
 
Solo poche settimane fa la scarcerazione di Giovanni Brusca ha riacceso il dibattito sull’uso dei pentiti nella lotta alla mafia. Brusca, lo “scannacristiani” la cui mano azionò il telecomando della bomba a Capaci, è lo stesso che ventinove anni dopo esce di galera grazie a una legge che proprio la sua vittima più illustre, Giovanni Falcone, aveva chiesto per anni alla politica. Un paradosso? Forse. Nonostante questo, per l’ex magistrato antimafia Dodero non ci sono dubbi: “L’apporto dei collaboratori di giustizia è fondamentale e non se ne può fare assolutamente a meno. Non si può sconfiggere in maniera diversa queste associazioni, che di per sé sono associazioni segrete, se non ascoltandone la voce ‘interiore’”. Era vero quando Falcone induceva Tommaso Buscetta a rivelare a un estraneo all’“onorata società”, per la prima volta, il funzionamento delle cosche. Ed è vero a tutt’oggi, tanto che l’ultima inchiesta su Capaci è partita proprio grazie alle rivelazioni di uno dei pochi “pentiti” che si possano ritenere tali a pieno titolo: “Ho conosciuto pochi collaboratori di giustizia veramente contriti per quello che hanno fatto, tra questi c’è Gaspare Spatuzza. Il suo è davvero un caso di collaboratore di giustizia ‘redento’ che ha compiuto un percorso di coscienza e che soltanto all’esito di questo percorso ha inteso collaborare”.
 
Resta da chiedersi quanto questi tre decenni di inchieste, arresti e processi condotti con strumenti inediti, in particolare le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e il 41bis, abbiamo avvicinato quella fine della mafia a suo tempo vaticinata da Falcone. “La mafia come fenomeno umano si è già trasformata: ha una forma liquida, pertanto si abitua ai cambiamenti e assume la forma del contenitore in cui si trova” spiega Dodero: “Quella con cui si confrontavano Falcone e Borsellino era una mafia che si mostrava e che faceva di tutto per apparire, fino a cercare di far scendere lo Stato a patti. Ma sono state proprio le stragi a comportare la fine di quella mafia che a poco a poco si è trasformata”. In meglio o in peggio? Difficile trovare una risposta univoca: “È una mafia che non definirei più o meno pericolosa di quella di un tempo: lo è altrettanto, ma utilizza altri sistemi. Una mafia che cambia con il mondo”.
 
 
La Granda non è più un’isola: “Attenti ai sintomi di infiltrazioni criminali”
 
Questo significa che non solo le autorità ma anche il tessuto sociale sono chiamati a una maggiore attenzione. Il Piemonte non è immune alle infiltrazioni. Fin dagli anni Settanta sul territorio regionale esistono insediamenti mafiosi, favoriti a suo tempo dal ricorso al soggiorno obbligato: “Anche in questo territorio la mafia si muove e ha progettualità, ma non è semplice farle emergere: questi personaggi ormai non hanno più bisogno di mostrare i muscoli, magari bruciando un camion quando ci si presenta in cantiere a chiedere il pizzo. Basta mostrarsi con un certo biglietto da visita”. E la Granda? Può dire addio alla retorica dell’isola felice, secondo il capo della Procura cuneese. Non solo nel nord della provincia, dove è stata scoperta solo pochi mesi fa l’esistenza di una “locale” di ‘ndrangheta, ma sull’intero territorio: “Ritengo molto più difficile l’investigazione su questi fenomeni, ormai silenti, rispetto a quelli clamorosi di prima. Per questo dobbiamo sempre tenere alta la guardia, andando a registrare i sintomi della presenza di organizzazioni criminali”.

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