CUNEO - La stoccata del direttore del Censis: “Il sogno europeo? Una narrazione finita”

Massimiliano Valerii, ospite a villa Tornaforte Aragno, ha toccato i nervi scoperti della crisi italiana: “Per noi competitività ha significato solo riduzione dei salari”

Andrea Cascioli 06/11/2022 11:26

Certe parole fanno impressione, specie se consideriamo chi le pronuncia. Prendiamo ad esempio questa riflessione: “Abbiamo assistito al naufragio delle narrazioni post-ideologiche in cui avevamo cercato di costruire il nostro benessere: la prima è quella dell’Europa unita senza frontiere come ‘nuova patria’”. L’autore non è un opinionista incendiario, o un comiziante registrato nel pieno di una riunione di quelle forze che abbiamo preso a definire “sovraniste” o “populiste”.
 
Questi giudizi vengono dalla voce pacata di Massimiliano Valerii, direttore generale del Censis, ospite dell’ultimo incontro organizzato a villa Tornaforte, la “Cernobbio cuneese” dell’editore Nino Aragno e di Confartigianato Imprese Cuneo. In compagnia del presidente di Fondazione CRT Giovanni Quaglia, il curatore dell’annuale rapporto Censis ha toccato tutti i nervi scoperti della crisi italiana e mondiale. Siamo al termine dei trent’anni straordinari della “globalizzazione accelerata”, ha spiegato Valerii: un arco di tempo durante il quale il Pil del mondo è aumentato del 130%, il valore dei commerci è salito di sei volte, la popolazione al di sotto della soglia di povertà è passata dal 36% al 10%.
 
Eppure in questo lasso di tempo è accaduto anche qualcos’altro, qualcosa che sta alla base di un malessere non solo politico e sociale in Occidente. Nel 1989, l’anno della caduta del muro di Berlino, il 64% della ricchezza del mondo era concentrato nelle economie avanzate e solo il 36% nei cosiddetti Paesi in via di sviluppo. Nel 2021 questo rapporto è ormai ribaltato: ora la quota di ricchezza dell’Occidente “allargato” si è ridotta al 42% mentre quella degli altri - Brics in testa - è salita al 58%. Il caso paradigmatico è quello della Cina, dove il Pil è salito addirittura di quattordici volte negli ultimi trent’anni: l’aspettativa di vita è passata da 69 a 77 anni e il tasso di mortalità infantile si è ridotto da 42 a 7 ogni 1000 nati, mentre il tasso di iscrizione universitaria è volato dal 3% al 58%. Oggi, ricorda Valerii, solo lo 0,5% dei cinesi vive sotto la soglia di povertà, contro i due terzi di tre decenni fa: è il più grande miracolo economico della storia.
 
Le vecchie potenze hanno cercato di reagire alla crisi, mettendo in piedi un sistema che avesse al centro la competitività: l’obiettivo era integrarsi al meglio nelle catene del valore e presidiare i mercati internazionali. Obiettivo raggiunto, ricorda il direttore del Censis, tant’è che l’Italia ha vissuto nel decennio pre Covid uno straordinario boom delle esportazioni, salite del 44%. Nello stesso periodo, intanto, la domanda interna sprofondava insieme agli investimenti pubblici, calati di oltre il 30% dal 2009 al 2019. Cosa è successo? “Per noi competitività ha significato in primo luogo riduzione dei costi di produzione, anzitutto i salari: tra il 1990 e il 2020 la variazione reale delle retribuzioni medie lorde annue è diminuita del 2,8%”. Siamo un caso unico in Europa, se si pensa che nello stesso frangente i salari reali aumentavano di oltre il 30% in Francia e Germania e di più del 40% nel Regno Unito. Il risultato, come sappiamo, è una bassissima crescita economica, superiore solo a quella della Grecia sotto il tallone della troika.
 
In questo scenario tremendo c’è un dato che sembra reggere ad ogni tempesta ed è quello del risparmio privato. Se la liquidità delle famiglie italiane fosse un Paese a sé, sarebbe addirittura la sesta economia del continente, al di sopra del Pil di interi Stati come l’Ungheria o il Portogallo. Ma queste, ricorda Valerii, sono risorse distolte ai consumi e agli investimenti: “Le famiglie hanno risparmiato su tutto in via precauzionale, perché attanagliate dall’incertezza. Il portafoglio finanziario dei privati ha raggiunto i 5 mila miliardi di euro, con una componente ferma sui conti correnti che ha superato i 1200 miliardi di euro”. Ancora a fine 2021, infatti, i consumi delle famiglie erano più bassi dell’8% rispetto ai livelli antecedenti alla crisi del 2008.
 
La crisi dell’energia non è la preoccupazione principale a lungo termine. Lo sono, invece, i possibili contraccolpi: “I prezzi dell’energia torneranno a scendere, qualche segnale si è già avvertito. Il prossimo anno avremo un tasso di inflazione dimezzato, ma il rischio è il depauperamento del tessuto imprenditoriale che potrebbe diventare permanente, se una parte delle imprese dovesse andare in default”. L’Italia e l’Europa, più ancora delle contingenze economiche, scontano l’incapacità di darsi una visione comune: “Non abbiamo più una destinazione teleologica, cioè un fine, come lo era la promessa implicita che le prossime generazioni avrebbero vissuto meglio delle precedenti”.
 
 
Pubblicato in origine sul numero del 3 novembre del settimanale Cuneodice - ogni giovedì in edicola

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