CRISSOLO - Marmolada, il precedente del Monviso: già nel 1989 i primi allarmi sui cambiamenti climatici

Il crollo di una parte del ghiacciaio sospeso di Coolidge fortunatamente non provocò vittime, ma le analogie con quanto accaduto sulle Dolomiti sono molte

Andrea Dalmasso 09/07/2022 08:27

La tragedia della Marmolada ha costretto l’attenzione di tutti a focalizzarsi sul cambiamento climatico e sul riscaldamento globale che stiamo vivendo, le cui conseguenze sono ormai drammaticamente sotto gli occhi di ognuno di noi. Un evento, quello di domenica 3 luglio, che ha riportato alla mente di tanti cuneesi quanto successo oltre trent’anni fa alle pendici del Monviso, in un’epoca in cui il grande dibattito sul clima era appena agli inizi. Quanto accaduto sulla parete nord del “Re di Pietra” ebbe conseguenze infinitamente meno gravi, ma per la dinamica presenta evidenti analogie con ciò che è avvenuto sulle Dolomiti.
 
Era la sera del 6 luglio del 1989 quando gran parte del ghiacciaio sospeso di Coolidge (da William Auguste Coolidge, alpinista americano che ne completò per primo la scalata nel 1870), sul versante nord del Monviso a quota 3195 metri, si scollò dalla roccia precipitando a valle. Una enorme valanga di ghiaccio dal volume di circa 200 mila metri cubi - circa i due terzi del totale del ghiacciaio - scese lungo il Canalone Coolidge trascinando con sé tutto quanto incontrasse sulla sua strada, andando a sbattere sul sottostante Ghiacciaio Inferiore, per poi espandersi sul fondovalle nell’area intorno al lago Chiaretto, cancellando il sentiero che dal Pian del Re conduceva verso il Rifugio Quintino Sella. In pochi minuti la coltre bianca che da millenni ricopriva quel versante della montagna era sparita. La potenza raggiunta dalla valanga fece sì che la massa risalì addirittura per 50 metri sul versante opposto, prima di esaurire la sua spinta e fermarsi. Solo il giorno - era giovedì - e l’orario  (le 22.45 circa) evitarono una tragedia: quell’area, solitamente ad alta frequentazione di escursionisti, in quel momento era completamente vuota. Solo due escursionisti monegaschi che il giorno dopo avrebbero dovuto risalire il canalone si erano accampati per la notte nel bivacco Falchi-Villata: dopo il crollo ne uscirono miracolosamente illesi.
 
Da allora il ghiacciaio non è più riuscito a recuperare il volume perso in quel distacco: la sua sopravvivenza oggi è essenzialmente assicurata da apporti valanghivi, come sottolineato in una articolo firmato nel 2019 da Giovanni Mortara, Stefano Perona e Marta Chiarle del Comitato Glaciologico Italiano. Si legge nel pezzo, pubblicato su Nimbus, il sito della Società Meteorologica Italiana: “L’evento, per le Alpi italiane, rappresentò il primo, significativo segnale di una trasformazione della criosfera collegabile al riscaldamento climatico”. Anche l’estate del 1989 fu particolarmente calda, in seguito ad un inverno avaro di precipitazioni nevose e dopo un periodo di anomale piogge ad alta quota. Al “Quintino Sella”, quell’anno, dal 20 giugno il termometro non scendeva sotto i 3 gradi. Tra rocce che si scaldavano e ghiaccio che si fratturava, eroso dall’acqua di fusione, si arrivò all’evento del 6 luglio. Quando l’enorme massa di ghiaccio si staccò iniziando la sua corsa verso il basso, il boato fu udito in tutta la valle Po, la valanga fece vibrare i sismografi di Stroppo, in alta valle Maira, ad oltre venti chilometri di distanza in linea d’aria. Il crollo cambiò per sempre la fisionomia della zona, trascinando con sé rocce e detriti e andando a colmare una parte del lago Chiaretto.
 
A parlare di analogie con i fatti della Marmolada è Luca Mercalli, presidente della Società Meteorologica Italiana, che ne ha scritto in un articolo pubblicato lunedì 4 luglio sul Fatto Quotidiano. Le dinamiche, come detto, sarebbero state simili a quelle verificatesi sul Monviso nel 1989: le alte temperature avrebbero generato un “intenso ruscellamento superficiale con formazione di canali che quando trovano un crepaccio convogliano l’acqua fino al fondo roccioso, dove accumulandosi in sacche genera sottopressioni in grado di far letteralmente esplodere il ghiaccio che la contiene”. Nell’articolo Mercalli ricorda l’episodio del Coolidge: “Ricordo che accompagnai sul posto il collega Martin Funk del laboratorio di glaciologia del Politecnico di Zurigo: dal sopralluogo emerse che probabilmente era stato un temporale con pioggia a quote dove di norma dovrebbe nevicare anche d’estate a causare l’infiltrazione di acque nella crepaccia terminale del ghiacciaio, destabilizzandolo”.
 
Il dibattito sui cambiamenti climatici nel 1989 non era in cima alle agende politiche e sulle prime pagine dei quotidiani, eppure i segni che qualcosa si stesse modificando erano evidenti già all’epoca. In un documento di sintesi sul crollo redatto dai geologi Giovanni Mortara e Furio Dutto nei mesi successivi, infatti, si legge che tra la fine dell’800 e il 1986 la superficie totale glacializzata nel Gruppo del Monviso si era ridotta del 42%. E qualcuno già allora lanciava l’allarme. Augusto Biancotti, segretario del Comitato Glaciologico Italiano, disse in un’intervista rilasciata a “La Stampa” il 10 agosto 1989, poco più di un mese dopo il crollo: “Siamo in presenza di una ritirata record, quanto a rapidità. Con poche eccezioni, i ghiacciai italiani si stanno riducendo. E quando la loro superficie scende al di sotto dei cinque o sei ettari, una ripresa diventa pressoché impossibile. Un’inversione della tendenza che ha prodotto questa situazione sembra difficile”.
 
Un’inversione che infatti nei trent’anni successivi non c’è stata. A partire dal mese di dicembre del 2019, infatti, nuovi crolli si sono verificati sulla parete nord-est del Monviso, la stessa dal quale si staccarono due terzi del Coolidge nel 1989. La relazione pubblicata da Arpa Piemonte e Sifrap individuò tra le cause l'intensa fratturazione della roccia e la degradazione del permafrost: “I dati di temperatura per le Alpi piemontesi mostrano una tendenza all’aumento maggiore rispetto alla temperatura media globale e si conferma la tendenza all’accelerazione del riscaldamento”, spiegava il rapporto.
 
Le conseguenze? Furono illustrate dallo stesso Biancotti nella sua intervista del 1989, che in un altro passaggio proseguiva così: “Molto rischiose. I ghiacciai riforniscono d’acqua i fiumi padani. Questi sono le fonti principali per tutti i canali che irrigano le piantagioni del Piemonte e costituiscono la risorsa principale per l’irrigazione delle grandi coltivazioni della Lombardia, del Veneto e di tutta la pianura Padana. Un loro inaridimento sarebbe un’autentica mazzata per l’agricoltura italiana”.
 
Parole che suonano sinistramente attuali in un momento in cui anche la crisi idrica è un tema all’ordine del giorno. Nonostante siano passati oltre trent'anni, insomma, sembra che nulla sia cambiato. Nel frattempo assistiamo inermi alle montagne che si sgretolano sotto i nostri occhi.
 

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