CUNEO - Tabù suicidi: "C'è un pregiudizio da superare, serve un lavoro di prevenzione"

I gesti anticonservativi sono la prima causa di morte tra gli adolescenti, ma sono in pochi a voler affrontare il problema

Micol Maccario 04/12/2022 06:50

Il suicidio è la seconda causa di morte tra i giovani di età compresa tra i 15 e i 19 anni, preceduta solo dalle morti causate da incidenti stradali. Questo è il dato che emerge dal rapporto UNICEF “La condizione dell’infanzia nel mondo: nella mia mente”. Secondo il report il 19% dei ragazzi europei e il 16% delle ragazze tra i 15 e i 19 anni soffre di problemi legati alla salute mentale. In questa fascia d’età sono 9 milioni coloro che convivono con un disturbo legato alla salute mentale, più della metà dei casi è rappresentato dall’ansia e dalla depressione. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) il tasso di suicidi è sempre stato più elevato tra gli anziani di sesso maschile, ma negli ultimi anni è cresciuto anche tra i giovani che, ad oggi, sono il gruppo a maggior rischio in un terzo dei Paesi.
 
Il 25 novembre 2022 nella sala Falco Centro incontri a Cuneo è stata proposta ai sanitari la giornata di formazione “Just a Bit Before: Pensieri e parole sulle condotte suicidarie”. Il convegno ha proposto una visione a 360 gradi della questione, con interventi di stampo antropologico, spirituale, sociologico, esperienziale. “La giornata ha avuto luogo perché c’è stato e c’è tutt’ora nel mondo occidentale un aumento dei suicidi in particolare nell’età giovanile. Questo convegno è stato organizzato in primo luogo per sensibilizzare, per cercare di togliere quel velo di stigma e pregiudizio che c’è nei riguardi del suicidio. Il fine era quello di informare la collettività perché il suicidio non è un aspetto sanitario, è un atto molto complesso. Ma non solo, è stato organizzato anche per parlare dei sopravvissuti” ci spiega Francesco Risso, psichiatra e direttore del Dipartimento di Salute Mentale di Cuneo. Una volta si pensava che i sopravvissuti fossero cinque o sei, principalmente composti dalla famiglia. In realtà sono molti di più, “si stimano un centinaio di persone tra famiglia, parenti, compagni di scuola, insegnanti, amici, compagni di squadra. C’è una moltitudine si sopravvissuti a cui questo atto - portato da un dolore mentale insopportabile - reca sofferenza”. Il convegno è stato pensato anche per loro che “frequentemente vengono colpiti da un lutto così tragico e incomprensibile. A volte i segnali ci sono, altre volte invece no”. I sopravvissuti sono spesso colti da un senso di colpa profondo, ma “le famiglie non devono assolutamente sentirsi in colpa. Alla base di questo gesto c’è sempre una sofferenza mentale, un dolore insopportabile che priva la persona della speranza del domani. Il futuro appare chiuso, carico di disperazione”.
 
I giovani ora sono molto soli, sostiene il dottor Risso. Talvolta è difficile trovare qualcuno con cui parlare, a cui rivolgersi. “Viviamo in una comunità che non c’è più, è un periodo carico di precarietà” aggiunge. In più è venuto meno l’apporto spirituale: “C’è una scristianizzazione del mondo occidentale, l’aspetto spirituale era un aiuto nell’affrontare le pene della vita. Anche questa mancanza contribuisce a sentirsi soli, senza aiuto e senza supporto in questo percorso di dolore mentale”.
 
È importante che le persone sappiano di poter trovare un appoggio. Per questo sono stati creati in tutte le città della nostra zona spazi di ascolto dove chiunque può parlare liberamente. Il progetto è stato possibile grazie a una collaborazione tra il Dipartimento Salute Mentale, il Dipartimento Materno Infantile e il Dipartimento Dipendenze Patologiche, in collaborazione con gli Enti gestori dei Servizi sociali. A Cuneo si trova in Corso Dante ed è un luogo in cui si ha l’opportunità di parlare con persone formate che, se colgono una sofferenza particolare, possono introdurre la persona ai servizi specialistici: “Questo funziona, certo bisogna fare un lavoro di prevenzione parlandone con le famiglie, a scuola, con le parrocchie, le associazioni sportive”. Il grande problema è che in Italia “c’è un pregiudizio radicato, non si parla di suicidio”.
 
Perché in Italia non si parla di suicidio
 
In alcuni Paesi il pregiudizio legato al suicidio è stato superato, lo stesso vale per le questioni legate alla salute mentale. In Scozia, ad esempio, è stata lanciata la campagna di prevenzione del suicidio “Let’s Talk” che, al fine della prevenzione, incoraggia le persone a parlare apertamente del suicidio. In Irlanda, invece, le campagne sono state fatte sui mezzi pubblici, spiega il dottor Risso. Sugli autobus c’era scritto “se hai pensieri suicidi chiamaci”.
 
In Italia la situazione è differente. Sulla nostra società pesa una storia legata al suicidio che è connessa anche alla Chiesa, la cui posizione si è evoluta nel tempo. Il professore di Filosofia dell’Università Gregoriana Andrea Di Maio afferma che, in relazione al Cristianesimo, possiamo individuare tre momenti differenti. Un’iniziale presa di coscienza dei motivi di rifiuto del suicidio, in origine visto come un caso particolare di omicidio, da evitare in base al secondo e al quinto comandamento. A questa è seguita una seconda fase che ha visto una progressiva accentuazione della proibizione del suicidio, fino alla sua equiparazione a un peccato imperdonabile. Vi è poi la terza e ultima fase, quella che parte dal Novecento e arriva fino ad oggi, in cui viene posta maggiore attenzione sulle condizioni psicologiche del soggetto. L’Italia porta con sé questa storia, che quindi è uno dei motivi per cui il suicidio e i disagi mentali sono ancora così stigmatizzati nel nostro Paese. “Adesso anche con Papa Francesco le cose sono completamente cambiate, però la storia e l’aspetto culturale della società legati al suicidio rimangono” aggiunge il direttore del Dipartimento di Salute Mentale.
 
Questo stigma è visibile fin dalla prima infanzia: “I pediatri parlano soprattutto delle problematiche fisiche. Dovrebbero invece prendere in considerazione la possibilità che un bambino possa avere una sofferenza mentale anche a 8 o 9 anni. È molto frequente. Invece lo stigma ha portato anche i medici stessi a non far scattare quella lampadina che fa pensare che il ragazzino possa avere una sofferenza”.
 
In Italia mancano le risorse umane. Il dottor Francesco Risso denuncia la mancanza di psichiatri, psicologi, medici, personale esperto che dia il giusto peso a questi problemi: “Colleghi del Regina Margherita mi dicono che tutto il giorno hanno accessi quotidiani di decine di ragazzi e ragazze che hanno ideazione suicidaria”. È necessario sensibilizzare la cittadinanza al tema con informazioni libere e senza pregiudizi, esattamente come si fa per le malattie fisiche. “La nostra è una società di solitudini” afferma il dottore, “bisogna parlarne sempre, a scuola, nelle famiglie. È un problema che investe la società e le politiche sanitarie. È importante avere questa attenzione per cercare tutti insieme di superare il pregiudizio che ancora non fa emergere la problematica del suicidio”.

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