CUNEO - Turchia e Siria, la testimonianza di un'infermiera cuneese: "Di fronte a noi solo macerie"

La ventisettenne Giulia Martini è stata ad Antiochia, nella zona colpita dal terremoto, insieme all'èquipe regionale: "Dalla gente abbiamo ricevuto il massimo della gratitudine possibile"

Micol Maccario 10/03/2023 16:17

Guardare le immagini del terremoto che ha colpito Turchia e Siria il 6 febbraio 2023 è diverso rispetto a vivere in prima persona le zone colpite. “Era tutto distrutto, c’erano solo macerie”, a raccontarlo è Giulia Martini, infermiera Cuneese che tra il 15 febbraio e il 5 marzo ha prestato soccorso ad Antiochia. L’équipe regionale partita per la Turchia era formata da medici, infermieri, tecnici di radiologia e Protezione civile. Giulia nel gruppo era la più giovane, insieme a un’altra ragazza del 1996: “Abbiamo sempre fatto corsi di formazione che ci indicavano quali step seguire in queste missioni. Poi farlo è diverso. Abbiamo montato l’ospedale da campo, eravamo noi a farlo funzionare, non c’era nessuno di esterno”, racconta. I primi tre giorni il gruppo ha costruito l’ospedale da campo partendo da zero. Si trattava di un ospedale grande, con il pronto soccorso, una parte di degenza, due sale operatorie di cui una ginecologica, “in questo reparto sono nati ventitré bambini in venti giorni”. “Sono state giornate faticose, ma bellissime. Era una fatica molto positiva. Il nostro gruppo funzionava proprio bene, avevamo un’energia elevatissima anche se non ci conoscevamo”, dice Giulia Martini: “L’équipe in questa missione ha fatto la differenza. È stato strano vedere che persone che non si conoscevano abbiano lavorato così bene insieme. Abbiamo dovuto condividere tutto: dal mangiare ai bagni, in tenda dormivamo in dieci”.
 
Il primo giorno dopo aver finito di montare non è arrivato nessuno, “eravamo preoccupati, ma Mario Raviolo - il coordinatore della missione - ci rassicurava convinto che le persone sarebbero arrivate e così è stato”. In venti giorni sono stati effettuati circa 3 mila ingressi. Il gruppo era arrivato una decina di giorni dopo la prima grande scossa, anche per questo non hanno visto i traumi da terremoto. La maggior parte dei pazienti si presentava all’ospedale con fratture, ustioni e attacchi di panico: “Molti manifestavano una sensazione di morte imminente, credevano si trattasse di questioni cardiache. Invece era un forte senso di ansia che si portavano dietro dalla prima forte scossa e dalle successive più lievi”.
 
Antiochia è al confine con la Siria, per questo motivo all’ospedale non arrivavano solo turchi, “abbiamo acconto anche molti siriani che probabilmente si trovavano già sul territorio turco precedentemente per motivi di guerra. C’erano tante persone di culture e religioni differenti”. L’ostacolo più grande è stata la lingua. Qualcuno parlava turco, qualcun altro arabo, quasi nessuno inglese: “In più c’era un elevato tasso di analfabetismo, che ha complicato ulteriormente la situazione. Ci aiutavamo con l’impostazione vocale di Google traduttore. Poi per fortuna sono arrivati i traduttori ed è stato più facile”. La maggior parte dei traduttori era giovane e sapeva parlare inglese o italiano, molti erano turchi emigrati in Italia che con il terremoto hanno deciso di tornare ad Antiochia come volontari per cercare di aiutare.
 
Al gruppo non era permesso uscire dal campo, ma un giorno hanno avuto la possibilità di fare un giro della città. “Davanti a noi c’era una città più grande di Torino completamente distrutta”, racconta l’infermiera. Tutti i giorni la terra tremava almeno una volta. La scossa più importante è stata una decina di giorni fa e ha registrato magnitudo 6.3: “Eravamo partiti un po’ immaginando che avrebbero potuto esserci altre scosse, ma poi quando lo vivi è diverso. Se ci penso razionalmente, in quel momento non avremmo dovuto avere paura perché il campo è stato costruito in un campo da calcio, in una posizione molto sicura, ma appena la terra ha iniziato a tremare eravamo terrorizzati”, racconta. 
 
Quel giorno Giulia lavorava in degenza, nella tenda c’erano molte madri con bambini piccoli: “Le donne erano tutte a terra con i figli in braccio e invocavano Allah. Dopo quel momento siamo rimasti a lungo ancora a terra per la paura e perché dopo una grande scossa ci sono quelle di assestamento”. Quella notte c’è stato un incremento degli accessi al pronto soccorso, “forse perché la gente in ospedale si sentiva sicura. La questione emotiva era molto importante per loro. Non c’erano psicologi, ma sarebbero serviti. Per le prossime missioni è stato proposto di inserirli”.
 
Questa esperienza per chi ha partecipato non è stata solo formativa dal punto di vista umano, ma anche da quello professionale. “Abbiamo imparato a come adattare la nostra medicina - quella che impariamo all’università e in reparto - alla medicina da campo, quella è tutta un’altra storia. Adattarsi all’inizio è stato difficile”, dice Giulia.
 
Il gruppo ha provato anche esperienze che prova quotidianamente in reparto, ma la sensazione è stata diversa. “Un giorno è arrivato un paziente che di notte non riusciva a respirare perché aveva apnee notturne. Dopo il terremoto però non aveva più la sua maschera di ossigeno. È arrivato da noi esaurito dal punto di vista respiratorio”, racconta. All’inizio non si alzava dal letto, ma dopo un po’ è riuscito a camminare per il campo e dopo qualche giorno è stato dimesso: “Lui si è messo a piangere, anche noi piangevamo. Nonostante siano situazioni che vivi anche in Italia, lì con pochi mezzi, con la gente che non ha più niente, la sensazione di aiuto è molto più forte. E anche quella di riconoscenza”.
 
Tornare in Italia non è stato facile: “È stato un giorno tristissimo ma bellissimo. C’è stata molta riconoscenza da parte dei terremotati. C’era chi ci abbracciava, chi piangeva. Ci hanno dimostrato il massimo della gratitudine possibile. Un signore ci ha detto 'tutte le volte che tornerete e ci direte che ci avete aiutato sarete come fratelli per noi. Le case vi saranno aperte in tutta la Turchia'”.
 

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