DOGLIANI - ‘Chi acquista Barolo ha diritto di sapere cosa beve’

L’ex presidente del consorzio di tutela, Orlando Pecchenino, è accusato insieme al fratello di aver vinificato in una cantina esclusa per 300 metri dall’area docg

a.c. 28/01/2020 20:10

 
Se fossimo su un campo da calcio, si parlerebbe di ‘fuorigioco millimetrico’. Per i produttori di Barolo docg, però, anche trecento metri fanno la differenza. Tanta è la distanza che separa la storica cantina gestita dai fratelli Orlando e Attilio Pecchenino a Dogliani dall’area di produzione del re dei vini di Langa.
 
ll processo per frode in commercio in corso davanti al tribunale di Cuneo nasce proprio dall’ipotesi che l’azienda abbia vinificato a Dogliani anziché a Monforte, dove i Pecchenino gestiscono un’altra - più piccola - cantina. Gli imputati erano già finiti nel 2016 al centro di un’indagine dei Nas ad Asti: i Carabinieri contestavano ai due imprenditori di aver prodotto centinaia di ettolitri di Barolo docg per le annate 2013, 2014 e 2015 fuori dall’area indicata dal disciplinare. Il procedimento si era concluso con un patteggiamento davanti al gip: “Una scelta obbligata per ottenere il dissequestro e salvare il vino. Ma non equivale a un’ammissione di colpa” ha precisato in aula Orlando Pecchenino, già presidente del consorzio di tutela del Barolo e del Barbaresco prima delle dimissioni nel 2018.
 
Il secondo filone giudiziario, quello di Cuneo, riguarda le annate comprese fra il 2005 e il 2012. Il sostituto procuratore Attilio Offman ha chiesto la condanna per entrambi gli imputati a venti giorni di reclusione e 1200 euro di multa, sostenendo che il vino non fosse mai passato per la cantina di Monforte: “È una cantina fantasma. Nessun dipendente dei Pecchenino afferma di averci lavorato, nessuno portava lì le uve, nessuno ritirava le vinacce. I Carabinieri all’avvio delle indagini non trovarono alcuna traccia di vinificazione”. Secondo l’accusa, diversi riscontri oggettivi proverebbero che l’azienda aveva dichiarato il falso: in particolare il fatto che non fossero stati ritrovati raspi (“ce ne sarebbero dovuti essere in gran quantità, con quei volumi”) e che il consumo di acqua apparisse molto inferiore ai valori medi.
 
Circostanze smentite dalle difese dei due imputati, sulla scorta delle consulenze tecniche di parte: “Non è vero che i volumi d’acqua siano sempre rimasti costanti. Nel 2012 erano già cinque volte superiori a quelli di due anni prima” ha affermato l’avvocato Fabrizio Mignano. La collega Luisa Pesce si è soffermata sul carattere ‘transitorio’ del sito produttivo: “La cantina di Monforte era una sistemazione provvisoria per i Pecchenino. Per questo vi veniva portato solo il quantitativo necessario di barriques”. Gran parte della contesa verte sul sistema utilizzato per la vinificazione: le difese sostengono che questa avvenisse attraverso il metodo dello ‘sgrondo statico’ anziché con la normale pressatura, mentre l’accusa esclude questa possibilità obiettando che in quel caso la quantità di vinacce sarebbe stata superiore.
 
“È irrilevante il fatto che il vino abbia le stesse caratteristiche organolettiche del Nebbiolo Langhe prodotto fuori dall’area docg. Chi acquista Barolo ha diritto di sapere cosa beve” ha concluso il pubblico ministero. “Si è giocato al massacro di una persona e di un’azienda. Spero che nessuno, in futuro, possa vivere un’esperienza simile” è invece il succo delle dichiarazioni di Orlando Pecchenino.
 
Ora resta solo un ultimo capitolo da scrivere, quello che spetterà al giudice.

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