BOVES - “Così ho fatto riaprire il caso Nada Cella”: ecco le verità della criminologa

Antonella Delfino Pesce racconta a Cuneodice i retroscena della vicenda che ha portato a una clamorosa svolta nelle indagini sul delitto, venticinque anni dopo

in foto: Antonella Delfino Pesce, la criminologa che ha indagato sul delitto di via Marsala

Andrea Cascioli 23/01/2022 09:01

Da più di venticinque anni il delitto di Nada Cella è uno dei grandi misteri della cronaca nera italiana. Non perché sia un delitto perfetto, tutt’altro, ma perché un’incredibile quantità di errori e di coincidenze sfortunate ne ha celato la logica, se di logica si può parlare per un crimine tanto barbaro. Questo fino al novembre scorso, quando il lavoro di una studentessa di criminologia ha portato a riaprire un fascicolo che tutti, ormai, consideravano chiuso per sempre.
 
Lei si chiama Antonella Delfino Pesce, lavora come biologa molecolare all’università di Bari. Dopo le lauree in veterinaria e in psicologia aveva deciso di prendere un master in criminologia a Genova. La nostra storia comincia da qui, da una tesi universitaria. Anzi da molto prima, da un fascicolo con una serie di trascrizioni e un verbale sul sequestro di cinque bottoni. Ma partiamo dall’inizio.
 
 
Da Soracco alla mafia albanese, una girandola di sospetti
 
È il 6 maggio del 1996, sono le ore nove e quindici minuti. Al centralino della polizia di Chiavari arriva la chiamata di un commercialista di nome Marco Soracco: dice che la sua segretaria è “a terra in un lago di sangue”, nel suo studio al secondo piano di via Marsala 14. Pensa a una caduta, lo pensano anche gli operatori della Croce Verde quando arrivano sul posto e la trovano agonizzante. Morirà all’ospedale il giorno stesso. Ma quella ragazza non è caduta, è stata colpita con una violenza inaudita da un oggetto spigoloso e poi sbattuta a terra fino a sfondarle il cranio. Chi è stato? Il sospettato più ovvio è il suo principale. Soracco ha l’occasione, i mezzi e vari possibili moventi: da quello sentimentale (pare che un suo approccio fosse stato respinto dalla segretaria) a quello professionale, perché Nada dallo studio voleva andarsene e forse - ipotizza qualcuno - in cinque anni aveva visto e sentito troppo. Soracco però non è l’unico indiziato: ci sono anche Marisa e Fausta Bacchioni, sua mamma e sua zia, che con Nada avrebbero voluto “sistemarlo” e che vivono entrambe nello stesso palazzo, al piano di sopra. E Luciana Signorini, una vicina con problemi mentali. Il tempo passa, le ipotesi investigative si affievoliscono.
 
L’indagine viene archiviata, poi riaperta per seguire piste sempre più improbabili: un serial killer, una banda di criminali organizzati. Non è tutto lavoro inutile. Nel 2010 il procuratore Francesco Saverio Brancaccio scopre che alcuni vicini di casa di Nada sono coinvolti nell’inchiesta Riviera, un’indagine sui traffici di droga e prostituzione della mafia albanese. Grazie ai nuovi riscontri emerge una traccia di Dna femminile sulla camicetta di Nada: è un indizio importante, lo si capirà ancor meglio quando entrerà in scena un’altra sospettata.
 
 
Tanti dettagli convergevano sulla Cecere fin dalle prime indagini
 
Antonella Delfino Pesce incomincia la sua ricerca sui fascicoli conservati da Bruno Cella, il papà di Nada, e dall’avvocato Scopesi, il legale della famiglia Cella. Trova i faldoni dei primi due anni di indagini: “Il lavoro iniziale - ci racconta - è stato molto difficoltoso, perché i verbali erano tutti sparpagliati. Un buon numero di mesi l’ho speso solo per mettere ordine in quelle carte”. In quella montagna di fogli c’è un fascicoletto di dodici pagine nel quale si parla specificamente di una certa Anna. È una conoscente occasionale di Soracco e forse anche di Nada. Per il momento, solo un nome tra tanti. In questa fase la tesista individua le persone da attenzionare: gli albanesi, un vicino di casa, Luciana Signorini [nel frattempo deceduta, ndr] e Anna, protagonista di un’indagine naufragata per un mancato riscontro.
 
Già, perché qualcuno a questa Anna ci aveva pensato. Lo avevano fatto i carabinieri, raccogliendo elementi a margine dell’inchiesta principale condotta dal commissariato di polizia. Ma il procuratore di allora, il dottor Filippo Gebbia, questi elementi non aveva saputo o voluto collegarli. Così Anna era entrata e uscita dai radar, senza quasi lasciare traccia. Quasi, perché in realtà di tracce ce ne sono diverse: c’è la deposizione di una vicina di casa di Anna, residente a cento metri dallo studio Soracco, che parla del suo astio verso Nada Cella. C’è la testimonianza di una mendicante che insieme a suo figlio vede una ragazza aggirarsi con una mano insanguinata in piazza Cavour, due minuti a piedi da via Marsala. Ci sono le telefonate, tante, da più persone: un passante parla di una ragazza con un motorino e una giacca color senape, avvistata in via Marsala. Un’altra vicina di casa di Anna afferma di averla vista uscire molto presto in motorino, quella mattina, contrariamente alle sue abitudini. Ma soprattutto, c’è “la signorina”.
 
Così si qualifica al telefono una donna anziana che per qualche motivo tiene a rimanere anonima. Lei di quella Anna fa il nome e il cognome. Dice di averla vista “tutta sporca” mentre infilava qualcosa nel vano portaoggetti del motorino. Dice anche di averla sentita minacciare di spaccare la testa a qualcuno, di averne parlato “con qualche ragazza tra noi” e di aver pensato che “ce l’ha l’ardire”. Qualcuno crede che la “signorina” sia una suora, perché Anna - si scoprirà - era cresciuta in un istituto di religiose: si spiegherebbe così anche il riferimento a queste non precisate “ragazze”. Ad ogni modo, la teste anonima le prova tutte per farsi ascoltare: dice di aver chiamato “gli avvocati del commercialista e della vittima, ma anche la Curia”. In effetti per ben tre mesi fa più telefonate, chiama un certo avvocato Cella (che con Nada non c’entra nulla) e la signora Marisa Bacchioni in Soracco, peraltro molto legata agli ambienti religiosi. Forse chiama anche un’altra persona la cui identità, ci fa sapere la Delfino Pesce, non è ancora stata rivelata: “Le telefonate cominciano il 15 maggio e vanno avanti fino al 14 agosto: proprio in quei giorni i carabinieri stavano iniziando a indagare su Anna, ma non se ne tiene minimamente conto”.
 
 
L’indizio dei bottoni e la voce al telefono: “Potrebbe essere Annalucia”
 
Chi ne tiene conto è lei, l’aspirante criminologa, vedendo questi dettagli convergere. Nella prima relazione presentata su Anna e su altri due sospettati, tuttavia, non ci sono elementi nuovi per riaprire le indagini. È il 2019 e la ricercatrice, ormai divenuta investigatrice, decide di andarla a trovare a casa, Anna. Ha scoperto che si chiama Annalucia Cecere, ha 51 anni e vive tra Cuneo e Boves, alla Mellana, con il marito e il figlio. Dopodiché fa richiesta di accesso a tutti i verbali del tribunale. Le mancano circa duemila pagine sulle dodicimila complessive e le recupera per lei, con un paziente lavoro, “un bravissimo appartenente alle forze dell’ordine”. Dalla seconda rilettura salta fuori quello che lei considera l’indizio decisivo, il verbale dei bottoni. Parla del sequestro di cinque bottoni in casa della Cecere. Hanno l’iscrizione “Great Seal of the State of Oklahoma” e sono identici per foggia a quello trovato nello studio di Soracco, forse strappato da Nada in un disperato tentativo di difesa. Si è detto che questi, in realtà, sarebbero più grandi. Ma Antonella Delfino Pesce non lo crede: “I bottoni sono uguali, solo che in quello ritrovato nello studio manca una ghiera in plastica. Poteva benissimo essersi spezzata lì, oppure altrove nei giorni precedenti”.
 
Sul luogo del delitto c’è anche un altro indizio di tipo immateriale. Sono le quattro telefonate che una cliente, la signora Giuseppina Vaio, fa allo studio Soracco nei minuti esatti in cui Nada viene aggredita. Alle ore 8,45 non risponde nessuno. Pochi istanti dopo le nove, una voce di donna le dice in tono sgarbato che ha sbagliato numero e mette giù. La Vaio riprova subito dopo e riceve la stessa risposta. Passano pochi minuti, alle ore 9,20 richiama: stavolta risponde Marco Soracco e dice che la segretaria ha avuto un incidente. Purtroppo quando gli inquirenti decidono di cercare riscontri è troppo tardi: le celle telefoniche sono state sostituite a luglio. Non c’è modo di appurare se la Vaio avesse sbagliato numero o se la sua testimonianza sia la prova decisiva di un fatto: nello studio di Soracco, insieme a Nada, c’era una donna. Una donna talmente sconvolta e ossessiva da alzare due volte la cornetta, mentre Nada rantolava a terra. La testimone dice di aver sentito all’altro capo del telefono “una voce non giovanile”. Il dettaglio escluderebbe la Cecere, allora 28enne, ma anche Luciana Signorini che di anni ne aveva trentasei. Comprometterebbe invece la mamma di Soracco che aveva già 64 anni. Ma la signora Bacchioni, assicura la criminologa barese, aveva ancora nel 1996 una voce fresca per la sua età: “Non così Annalucia Cecere, la cui intonazione tende a variare molto a seconda dell’umore”.
 
 
“Gli audio di minaccia? Non li ho diffusi io. E sono fiera di essere una dilettante”
 
A questo punto, è possibile formulare un’ipotesi su quello che l’assassino - o più probabilmente l’assassina - potrebbe aver fatto una volta fuori dal palazzo: “L’idea che mi sono fatta è che, siccome si è trattato senz’altro di un omicidio d’impeto, abbia avuto il primo impulso di scappare verso sinistra. Lì c’erano i cassonetti dell’immondizia dove forse ha pensato di buttare l’arma del delitto o altre prove compromettenti. Poi però deve aver capito che non poteva lasciare nulla e ha cambiato direzione”. A sostegno di questa tesi c’è il fatto che a sinistra del civico 14 fosse stata ritrovata addirittura l’orma di una mano insanguinata. Nella direzione opposta, invece, è stata repertata una piccola traccia di sangue, mai analizzata. Si trova all’altezza del negozio di calzature di fronte al quale, secondo la “signorina”, era parcheggiato il motorino.
 
Questa storia sembra la trama di un film, ma manca ancora la sequenza più importante: il finale. Per quello bisognerà attendere l’esito degli esami sulle tracce ematiche evidenziate analizzando il motorino dell’indagata. “Non so quali elementi potrebbero assicurare il rinvio a giudizio. L’impianto accusatorio è comunque molto valido” spiega la donna che ha messo gli inquirenti su una nuova pista. Per il suo lavoro ha ricevuto anche dure critiche, come quelle di Selvaggia Lucarelli e di chi le imputa di aver avviato una “caccia al mostro” e diffuso gli audio delle minacce rivoltele dalla Cecere: “Tengo a precisare che gli audio non li ho divulgati io. Anche perché, se avessi voluto pubblicare tutto quello che ho, ci sarebbe stato altro materiale. Di questo si potrà parlare, ma solo dopo la chiusura delle indagini”. Quanto al resto, Antonella Delfino Pesce affronta le accuse a testa alta: “Mi è stato dato della detective improvvisata o della ‘pseudo criminologa’. Orgogliosissima di esserlo, se l’alternativa è il presenzialismo televisivo”.

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