L’avevano chiamata operazione “Fantabosco”, perché la droga si trovava nascosta in vari anfratti sparsi qui e là nei dintorni di Cuneo. Sotto il viadotto Sarti, nella zona del Parco Fluviale, ma anche nei boschi di Peveragno e nelle campagne di Morozzo e dei Trucchi. In due casi si trattava di coca in pietra: due pezzi da 116 grammi e 108 grammi. Meno “pesanti” gli altri due interventi: da 11 e 38 grammi. L’attività avviata dalla sezione Antidroga della Squadra Mobile, a marzo del 2021, aveva portato all’arresto di due piastrellisti: I.V., 40enne albanese residente a Cuneo, e B.D., 21enne italiano di Beinette. Insieme ai due arrestati era finito ai domiciliari A.N., albanese, 39 anni, residente a Cuneo nel quartiere Donatello. Era lui secondo gli inquirenti il tramite tra i due fornitori di “bamba” e i consumatori. Del tutto casuali le circostanze che avevano portato a scoprire la rete di spaccio. Tutto era nato dalla “notte brava” di due amici a cui A.N. aveva prestato l’auto, una Fiat Grande Punto. In pieno periodo Covid il guidatore dell’auto, A.S., marocchino residente a Cuneo, si era dato alla fuga per evitare di essere fermato da una volante della Polizia in corso Dante. Inseguita dalla gazzella per aver bruciato stop e precedenze, l’auto aveva imboccato in contromano via Bassignano e bocciato alcuni mezzi in sosta su via Meucci. Nel tentativo di seminare la polizia, il guidatore aveva perfino scartato un altro veicolo in direzione opposta passando sul marciapiede, prima di speronare la volante in piazza Martiri della Libertà e allontanarsi. La Punto era poi stata abbandonata sul lungostura XXIV Maggio. In casa del proprietario, A.N. appunto, i poliziotti avevano trovato 11 grammi di cocaina e un bilancino. Ulteriori elementi erano emersi dall’analisi di otto delle sue chat su Whatsapp: “Ha un problema di scarsa professionalità delinquenziale, - ha osservato in aula il sostituto procuratore Pier Attilio Stea - perché non ha ripulito le chat delle conversazioni nei confronti dei vari clienti e dei fornitori”. Un errore fatale. In tribunale, nel processo a carico dell’albanese, i vari compratori sono sfilati uno dopo l’altro davanti al giudice: “Era un momento in cui non c’ero con la testa, ho anche tentato il suicidio” si è giustificato uno di loro. “In quel periodo ero in una relazione tossico, ero facilmente circuita” ha spiegato una donna, dapprima negando di aver mai acquistato le dosi, poi chiedendo di essere sentita di nuovo e confermando tutto. Si era spaventata dopo aver visto l’imputato in aula, ha detto. I clienti nelle conversazioni usavano frasi in codice: c’era chi chiedeva “la medicina”, chi diceva di voler fare “l’aperitivo”. “L’unico che non lo fa è l’imputato quando parla con il fornitore” ha fatto presente il pm, chiedendo la condanna a due anni. L’avvocato Enrico Gallo, difensore dell’accusato, aveva obiettato all’ipotesi che l’albanese fosse qualcosa di più di un “consumatore inserito in un’attività di consumo di gruppo”. Il giudice Marco Toscano ha pronunciato nei suoi confronti una condanna a un anno e dieci mesi di reclusione e 1800 euro di multa, con la possibilità di convertire la pena in lavori di pubblica utilità. Anche i due fornitori hanno saldato nel frattempo il conto con la giustizia, con sentenze di patteggiamento.