CUNEO - “Family Affairs”, alla sbarra un presunto complice della gang di nomadi attiva nella Granda

Lo scorso anno l’operazione che aveva portato a dieci arresti e oltre 300mila euro in sequestro. Un gioielliere di Cuneo avrebbe acquistato i preziosi della banda

a.c. 18/11/2021 19:34

 
Dieci misure cautelari in varie province piemontesi, una ventina di furti accertati e refurtiva per oltre 300mila euro sequestrata. Era stato questo l’ingente bottino dell’operazione “Family Affairs” messa a segno nell’ottobre dello scorso anno dalla Squadra Mobile della Questura di Cuneo, con l’ausilio di un centinaio di poliziotti accorsi da tutto il Piemonte e il coordinamento della Procura.
 
Si trattava davvero di “affari di famiglia”, dal momento che tutti gli arrestati erano riconducibili al medesimo nucleo familiare di origine sinti. Osvaldo Barovero (72 anni) e la moglie Alfrida Laforè detta Frida (67 anni), residenti a San Chiaffredo di Busca, tenevano le fila del sodalizio di cui facevano parte le figlie Selica Barovero (39 anni) con il compagno Valentino Alex Debar (39 anni), residenti nel campo nomadi di Cerialdo a Cuneo, Angela Laura Barovero detta Lola (48 anni, residente a Volvera nel Torinese), Claudia Barovero (49 anni, residente nel campo nomadi di Carmagnola) e Glenda Barovero (36 anni, residente ad Asti). Con loro erano finiti in manette i cuneesi Romano Debar (60 anni), Giacomo Bresciani (37 anni) e Gianni Barovero (40 anni), figlio di Osvaldo e Frida e fratello di quattro delle arrestate.
 
Quest’ultimo, a differenza di altri indagati che hanno optato per il patteggiamento, ha scelto di andare a giudizio con rito ordinario. Deve rispondere di furto in concorso e associazione a delinquere: secondo gli inquirenti, il suo ruolo sarebbe stato quello di intermediario tra il clan Barovero e i ricettatori. Al centro delle indagini c’è in particolare il suo rapporto con un gioielliere del centro storico di Cuneo, al quale avrebbe rivenduto orologi di valore portati via dai familiari durante i vari colpi.
 
In aula è stata ripercorsa la genesi dell’inchiesta, scaturita da una diversa indagine che riguardava una sparatoria avvenuta nel febbraio 2020, all’interno del campo nomadi di via del Passatore. In quell’occasione Gianni Barovero (meglio noto con il soprannome di Telemaco o Mimmo) aveva fatto da “paciere” tra le due fazioni coinvolte nel dissidio, che pare fosse scoppiato a seguito di alcuni commenti su Facebook. Dalle intercettazioni telefoniche e ambientali era emerso però che i Barovero si stavano dedicando alla pianificazione di furti, commessi in diversi paesi della Granda (Busca, Casalgrasso, Demonte, Barge) ma anche nel Torinese, nell’Astigiano e in valle d’Aosta. Il modus operandi era sempre il medesimo: i ladri fingevano di essere impiegati di servizio pubblico, indossando una pettorina da addetti dell’acqua o del gas. Dopo aver carpito la fiducia della vittima (esclusivamente persone sole, anziani o disabili) entravano in casa a coppie o in gruppi di tre con una scusa. Mentre uno distraeva la vittima, gli altri facevano razzia.
 
Per riferirsi alla commissione di furti si usavano espressioni gergali in piemontese come “anduma a mangè” (“andiamo a mangiare”) o anche “anduma a vendi fer” (“andiamo a vendere ferro”). La banda si faceva comunque un punto d’onore di non usare violenza sulle proprie vittime. In una delle conversazioni, Frida parla con il figlio a proposito di un loro congiunto, affermando che ad andare a rubare con lui “c’è da avere paura”. Racconta di un episodio nel quale questa persona avrebbe legato un disabile in sedia a rotelle che lo aveva sorpreso a rubare: “A Osvaldo queste cose non piacciono, prenderebbe un infarto” dice la donna riferendosi al marito e patriarca dei Barovero. Le intercettazioni proseguiranno fino a luglio per poi interrompersi all’improvviso, quando i Barovero fanno bonificare le loro auto da un vigile del fuoco di Torino e scoprono le microspie piazzate dai poliziotti.
 
Ce n’è comunque quanto basta, secondo gli investigatori, per dimostrare che anche Gianni ha un ruolo nella vicenda: “Non è mai stato documentato un passaggio di refurtiva, ma lui mostra di sapere quando i suoi genitori vanno a rubare. Ogni volta, al loro ritorno, passa a trovarli a casa” ha spiegato in tribunale uno degli ispettori di polizia coinvolti nelle indagini. Si sospetta che l’uomo abbia almeno tentato di ricettare alcuni Rolex proponendoli in vendita a un orafo di Cuneo. Ad un altro avrebbe invece parlato di un orologio Cartier in oro, provento di un furto in valle d’Aosta. Con questa seconda persona sono già stati documentati numerosi contatti nel corso di precedenti inchieste: “Una cinquantina di chiamate in un anno” ha precisato un finanziere che aveva compiuto accertamenti sul gioielliere. Questo commerciante di preziosi è stato oggetto di due ingenti sequestri e di accuse di ricettazione e falsificazione per le quali è pendente il giudizio.
 
Il procedimento è stato intanto rinviato al 4 febbraio per la prosecuzione dell’istruttoria.

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