CUNEO - “Family Affairs”, ultima condanna nel clan dei sinti cuneesi

Due anni di pena per Gianni Barovero, figlio dei due principali artefici dei furti. Una ventina i colpi messi a segno in tutto il Piemonte, con 300mila euro di bottino

a.c. 20/04/2022 12:41

Dieci misure cautelari in varie province piemontesi, una ventina di furti accertati e refurtiva per oltre 300mila euro sequestrata. Era l’ingente bottino dell’operazione “Family Affairs” messa a segno nell’ottobre 2020 dalla Squadra Mobile della Questura di Cuneo, con un centinaio di poliziotti da tutto il Piemonte.
 
Si trattava davvero di “affari di famiglia”, dal momento che tutti gli arrestati erano riconducibili al medesimo nucleo familiare di origine sinti. Osvaldo Barovero (72 anni) e la moglie Alfrida Laforè detta Frida (67 anni), residenti a San Chiaffredo di Busca, tenevano le fila del sodalizio di cui facevano parte le quattro figlie e altri familiari. Era finito in manette anche Gianni Barovero detto Telemaco, 40 anni, il figlio maschio della coppia. Quest’ultimo, a differenza di altri indagati che hanno optato per il patteggiamento, ha scelto di andare a giudizio con rito ordinario. Doveva rispondere di furto in concorso e associazione a delinquere: secondo gli inquirenti, il suo ruolo sarebbe stato quello di intermediario tra il clan Barovero e i ricettatori.
 
L’ultima “coda” della maxioperazione si è chiusa con la condanna dell’imputato, per il quale il sostituto procuratore Pier Attilio Stea aveva chiesto due anni e otto mesi: i giudici hanno comminato due anni di carcere, più un altro anno di libertà vigilata. Il tribunale ha ritenuto provata l’associazione a delinquere ma non la partecipazione effettiva ai furti. Nove gli episodi contestati, in quattro dei quali la refurtiva era stata recuperata: “Gianni non partecipa mai ai furti, ma si occupa della ricettazione. È sua madre stessa a spiegare a una delle sorelle che anche a lui spetta una quota dei proventi, benché non venisse ‘a mangè’, cioè a rubare, da diversi anni” aveva argomentato il rappresentante della Procura. Quella messa in piedi, aveva aggiunto, era del resto un’“attività sistematica” con la formazione di veri e propri “equipaggi”: “I coniugi Barovero si muovevano alla mattina presto in modo da essere di ritorno per pranzo, quando Gianni li raggiungeva a casa”.
 
In aula è stata ripercorsa la genesi dell’inchiesta, scaturita da una diversa indagine che riguardava una sparatoria avvenuta nel febbraio 2020, all’interno del campo nomadi di via del Passatore. In quell’occasione Gianni Barovero aveva fatto da “paciere” tra le due fazioni coinvolte nel dissidio, che pare fosse scoppiato a seguito di alcuni commenti su Facebook. Dalle intercettazioni telefoniche e ambientali era emerso però che i Barovero si stavano dedicando alla pianificazione di furti, commessi in diversi paesi della Granda (Busca, Casalgrasso, Demonte, Barge) ma anche nel Torinese, nell’Astigiano e in valle d’Aosta. Il modus operandi era sempre il medesimo: i ladri fingevano di essere impiegati di servizio pubblico, indossando una pettorina da addetti dell’acqua o del gas. Dopo aver carpito la fiducia della vittima (persone sole, anziani o disabili) entravano in casa a coppie o in gruppi di tre con una scusa. Mentre uno distraeva la vittima, gli altri facevano razzia.
 
“Non è mai stato documentato un passaggio di refurtiva, ma lui mostra di sapere quando i suoi genitori vanno a rubare. Ogni volta, al loro ritorno, passa a trovarli a casa” ha spiegato in tribunale uno degli ispettori di polizia coinvolti nelle indagini, riferendosi a Telemaco. Si sospettava che l’uomo avesse almeno tentato di ricettare alcuni Rolex proponendoli in vendita a un orafo di Cuneo. A un altro avrebbe invece parlato di un orologio Cartier in oro, provento di un furto in valle d’Aosta. Entrambi sono ora indagati in separati procedimenti.

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