CUNEO - Furti in abitazione, il pm chiede la condanna per il presunto complice del clan Barovero

Il 42enne di origine sinti avrebbe rivenduto la merce “scottante” anche a due orefici di Cuneo. L’operazione di polizia aveva portato al sequestro di 300mila euro

a.c. 01/04/2022 16:00

È l’ultimo capitolo della vicenda giudiziaria nata dall’inchiesta “Family Affairs”, quello in corso davanti al tribunale collegiale di Cuneo. L’imputato è Gianni Barovero, 42 anni, figlio di Osvaldo e di Frida Laforè, i due “patriarchi” della famiglia di origine sinti responsabile di una ventina di furti in tutto il Piemonte.
 
L’operazione della Squadra Mobile della Questura di Cuneo, coordinata dal sostituto procuratore Pier Attilio Stea, si era conclusa nell’ottobre 2020, con il sequestro di oltre 300mila euro di refurtiva: denaro contante, gioielli, orologi di pregio. In manette oltre ai coniugi Barovero erano finiti lo stesso Gianni e quattro sorelle, più altri tre nomadi cuneesi imparentati con loro. Sempre uguale il modus operandi: i ladri fingevano di essere impiegati di servizio pubblico, indossando una pettorina da addetti dell’acqua o del gas. Dopo aver carpito la fiducia della vittima (persone sole o anziani, residenti in luoghi isolati) entravano in casa a coppie o in gruppi di tre con una scusa. Mentre uno distraeva la vittima, gli altri facevano razzia. In questo modo erano stati messi a segno i colpi in vari paesi della provincia (Busca, Casalgrasso, Demonte, Barge) ma anche nel Torinese, nell’Astigiano e in valle d’Aosta.
 
Proprio intercettando Gianni (meglio conosciuto come Telemaco o Mimmo) gli inquirenti erano venuti a conoscenza delle attività illecite. Tutto era incominciato dal tentativo di individuare il responsabile di una sparatoria verificatasi nel febbraio 2020 all’interno del campo nomadi di via del Passatore. Gianni Barovero si era proposto come “paciere” tra le due fazioni coinvolte. In alcune telefonate con la madre, però, quest’ultima si era vantata dei furti commessi: “Io e papà rubiamo più di quelli che vanno in moto e usano le bombe”. Il riferimento è al trucco, utilizzato da altri nomadi, di lanciare bombette puzzolenti in prossimità di un’abitazione, per convincere i residenti che sia in atto una fuga di gas. La banda si faceva comunque un punto d’onore di non usare violenza sulle proprie vittime. In una delle conversazioni, Frida parla con il figlio di un loro congiunto che avrebbe legato un disabile in sedia a rotelle, dopo essere stato sorpreso a rubare: “A Osvaldo queste cose non piacciono, prenderebbe un infarto” dice la donna riferendosi al marito.
 
Le intercettazioni ambientali e telefoniche erano proseguite fino a fine luglio, quando facendo bonificare le loro auto i Barovero avevano scoperto le microspie piazzate dai poliziotti. In seguito agli arresti, tutti gli altri imputati hanno patteggiato e concordato la restituzione integrale del maltolto alle vittime dei furti. Il solo Gianni è andato a dibattimento, accusato di furto in concorso e associazione a delinquere. Secondo la ricostruzione della Procura, il suo ruolo sarebbe stato determinante nel piazzare la refurtiva: in quest’ottica avrebbero giovato in particolare i suoi contatti personali con due gioiellieri di Cuneo, sentiti come testimoni. L’imputato, sostiene l’accusa, sarebbe stato consapevole delle attività illecite che i genitori commettevano quasi ogni giorno: “Attività sistematica, - spiega il pm Stea - con la formazione di veri e propri ‘equipaggi’. I coniugi Barovero si muovevano alla mattina presto in modo da essere di ritorno per pranzo, quando Gianni li raggiungeva a casa”.
 
L’organizzazione aveva perfino una vettura “aziendale”, intestata a un prestanome: “Per evitare intercettazioni i telefoni venivano spenti, si utilizzavano radioline. Il linguaggio usato nelle conversazioni è criptico e allusivo, come quando si parla di ‘biscotti’ comprati al supermercato per un valore di 600 euro”. Mentre l’apporto delle sorelle era solo occasionale, quello del figlio maschio sarebbe stato imprescindibile: “Gianni non partecipa mai ai furti, ma si occupa della ricettazione. È sua madre stessa a spiegare a una delle sorelle che anche a lui spetta una quota dei proventi, benché non venisse ‘a mangè’, cioè a rubare, da diversi anni”. Per i nove episodi contestati (quattro quelli in cui si è recuperata anche refurtiva, oltre al contante), il procuratore ha chiesto la condanna a due anni e otto mesi di carcere.
 
Barovero, difeso dagli avvocati Pier Carlo Botto e Mauro Molinengo, ha risposto alle domande in aula negando di essere a conoscenza degli illeciti: “Ho sempre cercato di proibire ai miei genitori di andare a rubare, non mi hanno dato retta”. A riprova di questo, l’imputato ha riferito di essersi rifiutato di far rimuovere le microspie dalla sua auto: “L’ho fatta controllare, ma non ho voluto togliere la cimice. Pensavo sarebbe servita come garanzia riguardo ai miei spostamenti”.
 
Il prossimo 20 aprile si attende il pronunciamento dei giudici.

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