CUNEO - Maxi evasione, la Procura chiede un anno e dieci mesi per il consulente fiscale Adriano Bruno

“Impensabile che nello studio tutti agissero all’insaputa del titolare” dice il pm. La difesa ribatte: “Dieci anni di accanimenti processuali e giornalistici”

Andrea Cascioli 16/02/2023 18:06

I fatti risalgono a oltre un decennio fa e molti capi d’imputazione sono ormai prescritti. Per quelli ancora in piedi, la Procura di Cuneo ha chiesto la condanna a un anno e dieci mesi per il consulente fiscale Adriano Bruno, al termine del secondo processo avviato nei suoi confronti.
 
Il primo si è concluso con una sentenza ormai definitiva della Corte d’Appello che ha assolto il ragioniere, dopo la condanna in primo grado a un anno e quattro mesi. Nel procedimento attuale Bruno è imputato, in veste di titolare dello Studio Sistem snc di Cuneo, per una frode fiscale quantificata in oltre 4 milioni di euro. Il consulente, sostiene l’accusa, avrebbe registrato spese fittizie in capo ad alcune aziende di cui seguiva la contabilità, favorendo l’evasione di 1 milione e 137mila euro. A sua volta avrebbe poi compiuto atti fraudolenti per evitare la riscossione coattiva dei beni, dopo che gli erano stati contestati mancati pagamenti per 3 milioni e 203mila euro.
 
Nell’impianto accusatorio è centrale il ritrovamento di vari documenti con la dicitura “visto con Adriano”, riferiti a registrazioni contabili che si ritiene essere state prodotte solo per coprire le false fatture. Vari clienti, ha spiegato una ex dipendente, avrebbero chiamato in studio per sollecitare “aggiustamenti” nella loro posizione fiscale: “A volte ci telefonavano spudoratamente dicendo ‘parlate con il ragioniere, non vogliamo pagare così tanto per l’Iva’. Per questo le pratiche venivano riviste con Bruno, era anche l’unico modo per tutelarci”. “Il ‘visto con Adriano’ è prova provata della sua responsabilità” sostiene il sostituto procuratore Alberto Braghin: “È pensabile che le dipendenti facessero tutto in autonomia, che inventassero loro costi e fatture e che Bruno ne fosse ignaro? No, perché non avevano alcun interesse”.
 
La difesa ha sostenuto fin dal principio che il titolare dello studio non si occupasse della contabilità, di cui invece era responsabile una ex dipendente poi divenuta socia d’opera. Quest’ultima, indagata in un primo tempo e poi prosciolta, nega tuttavia di aver intrapreso iniziative all’insaputa di Bruno: “Facevo solo ciò era richiesto anche agli altri dipendenti e non ho mai avallato fatturazioni false né dichiarazioni infedeli”. In tutte le situazioni nelle quali era richiesto di gonfiare le spese con operazioni inesistenti, afferma, l’input veniva dal titolare: “Costi inventati, oppure ingiustificati, per abbassare il fatturato”. Altrettanto sarebbe avvenuto con le dichiarazioni personali del ragioniere, riferite agli anni dal 2008 al 2011. È prescritta l’ulteriore accusa mossa all’imputato di aver costituito una società fittizia insieme alla sua convivente, la Sofi s.s., con l’obiettivo di bloccare il sequestro dei beni: “C’era il rischio che l’erario aggredisse i beni mobili e immobili” ha osservato il pubblico ministero, chiedendo la confisca di quanto già sequestrato.
 
Per l’avvocato Nicola Caminiti, difensore di Bruno, l’indagine è viziata da errori e pregiudizi: “Arriviamo alla discussione dopo più di dieci anni di accanimenti processuali e giornalistici, però all’esito di tutto questo il processo si conclude con illazioni e ipotesi. All’inizio l’accusa era di aver truffato lo Stato per 25 milioni, un fascicolo poi archiviato”. Si è sostenuto, ricorda il legale, che “Bruno ‘non poteva non sapere’ ciò che avveniva in ufficio: a ciò ha risposto la Corte d’Appello nella sentenza di assoluzione, evidenziando la mancata prova di una ‘reale ed effettiva partecipazione’” (nella frode, ndr). Pacifici elementi escluderebbero ogni responsabilità, argomenta la difesa: “Non c’è traccia di profitti che Bruno avrebbe ottenuto. Non si capisce perché si sarebbe dovuto rovinare la carriera, aveva un migliaio di clienti e nessun interesse a cercare sotterfugi a loro insaputa”.
 
In merito alla questione dei documenti “vistati”, l’avvocato osserva: “Il fatto che le impiegate temessero eventuali responsabilità non prova in alcun modo che queste debbano essere ascritte al datore di lavoro: altro valore avrebbero avuto se fossero state controfirmate dall’imputato. Non si può non osservare poi che le scritte ‘visto con Adriano’ sono sempre successive alla registrazione, non precedenti”. In quanto all’intestazione dei suoi beni alla società creata ex novo, conclude, non c’era nessun intento di sottrarsi al sequestro: “La società serviva per continuare a pagare il mutuo. Gli immobili in ogni caso erano gravati da ipoteche, dunque l’eventuale attività di Equitalia non avrebbe avuto precedenza sulle pretese delle banche”.
 
Il 16 marzo il giudice ascolterà le ulteriori repliche prima di emettere la sentenza.

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