L’indagine a loro carico era cominciata ipotizzando l’esistenza di una vera “banda del supermercato”. Una serie di passaggi sospetti dal magazzino del Mercatò Big, presso il Bigstore di Madonna dell’Olmo, documentati anche dai video che i carabinieri avevano realizzato mettendo telecamere nascoste sul piazzale. Secondo l’accusa le merci venivano collocate tra i prodotti danneggiati, scaricate con un lettore ottico dalla gestione aziendale e poi lasciate all’esterno, dove sarebbero state recuperate sulle auto private degli indagati. L’“inventario” comprendeva un bel po’ di tipologie: cassette di frutta e verdura, bottiglie di Coca Cola e di birra, pacchi di pasta, ma anche tre piante in vaso. Gli episodi documentati, quattordici in tutto tra la fine di aprile e la metà di giugno del 2019, coinvolgevano sette persone. Un indagato è nel frattempo deceduto, due hanno optato per i riti alternativi. I quattro finiti a giudizio - A.M. (classe 1970, residente a Caraglio) e G.D. (classe 1968, residente a Chiusa Pesio) del magazzino food, A.A. (classe 1978, residente a Centallo), addetto all’area elettrodomestici, e V.P. (classe 1962, residente a Cuneo), un ex carabiniere, esterno all’azienda - hanno sempre sostenuto la propria innocenza. Per loro non si trattava di merci, bensì di scarti. Prodotti invendibili, di cui la Dimar - proprietaria del Mercatò, che si è costituita parte civile nel processo - si sarebbe comunque disfatta. Il giudice Emanuela Dufour ha creduto a questa versione e assolto con formula piena gli accusati. Per loro il pubblico ministero aveva chiesto condanne tra i sei e i nove mesi, denunciando anche rotture provocate “ad arte” nelle confezioni: “Le rotture erano lo strumento fraudolento e attraverso di esse si è costruito il concorso nel furto” ha sostenuto l’avvocato Rinaldo Sandri, legale della Dimar. Negli ultimi video, ha aggiunto, si vedevano “casse intere di birra strumentalmente scaricate per poi essere depositate in prossimità dell’immondizia”: “Se tutto ciò era legittimo e costituiva un’’abitudine’, perché nessuno lo ha rappresentato all’azienda?”. Tutte le difese hanno evidenziato una “non curanza” del supermercato rispetto alle merci non vendibili: “Lo dicono tutti i testimoni e la parte civile stessa: anche se in astratto era vendibile, quella merce veniva buttata” ha osservato l’avvocato Leonardo Roberi. Per l’avvocato Barbara Giolitti “non è stata fornita prova di alcun accordo o di una volontà di sottrarre qualcosa che l’azienda non volesse buttare”. Nei confronti del solo A.A. pesava la circostanza di aver presentato due lettere a firma di don Pietro Giobergia, direttore dell’asilo di San Biagio di Centallo. Un ringraziamento per alcune confezioni di Estathé ricevute in occasione di una festa di fine anno scolastico. Il sacerdote aveva disconosciuto le missive, poi rivendicate invece da un collaboratore dell’asilo: “Ho firmato la lettera a suo nome, perché il parroco era occupato: non avevo elementi per capire”.