CUNEO - Obbligate a prostituirsi per ripagare i debiti: le ‘schiave dell’amore’ dalla Nigeria a Cuneo

Nel 2016 la Polizia aveva stroncato il traffico in un’abitazione di via Basse San Sebastiano. Una ragazza fu costretta ad abortire

Andrea Cascioli 26/09/2019 12:13

 
Lo chiamavano il ‘condominio dell’amore’ quel palazzotto di via Basse San Sebastiano dove nell’agosto 2016 la Squadra Mobile della Questura di Cuneo aveva stroncato un giro di prostituzione: il primo caso, in città, di sfruttamento delle nigeriane in appartamento. Ma le storie di chi ha vissuto in quel luogo non parlano di amore bensì di dolore, di desolazione, di speranze tradite.
 
Quelle di tre ragazze ventenni trascinate in una spirale di ricatti e abusi terminati solo con la liberazione da parte degli agenti di Polizia. Una di loro, rimasta incinta, era stata anche costretta ad assumere un farmaco abortivo che ne aveva causato il ricovero: è stato quel dramma a sancire la fine dell’incubo, facendo scattare la perquisizione nell’alloggio di via Roma in cui erano recluse le ‘schiave dell’amore’ che esercitavano in via Basse San Sebastiano.
 
In carcere sono finite due donne nigeriane, la ‘maman’ S.A., colei che aveva costretto la prostituta all’aborto, e la ‘soprastante’ N.I., 30 anni, intestataria dell’abitazione in via Roma. A quest’ultima, già condannata per sfruttamento della prostituzione, la pm Giulia Colangeli ha contestato il favoreggiamento aggravato dell’immigrazione clandestina, reato per cui ora si trova di nuovo a processo.
 
In aula sono state ascoltate sia la vittima dell’aborto forzato sia l’amica che era arrivata con lei dall’Africa. Quest’ultima, che oggi vive in una comunità di accoglienza in Toscana, ha chiesto di poter testimoniare dietro a un paravento per vincere il terrore di incrociare lo sguardo con la sua carceriera di un tempo.
 
Il loro viaggio era cominciato da Benin City, nel sud della Nigeria: una traversata nel deserto di una settimana verso la Libia, con un arabo che guidava la comitiva e decideva quando e dove fermarsi. In Libia le due ragazze si erano fermate per poco più di un mese, arrangiandosi a vivere in un ghetto. Gli arabi che le passavano lo stretto necessario le avevano infine caricate su una nave: “Una notte ci hanno detto di andare - ricorda la giovane - non ci hanno spiegato dove saremmo arrivati”.
 
L’imbarcazione era arrivata a Lampedusa il 24 luglio di tre anni fa: era l’anno nero dei viaggi in mare, con ben 181mila clandestini sbarcati sulle coste italiane. Dalla Sicilia le due erano state trasferite in un centro d’accoglienza ad Albissola Marina, in provincia di Savona. La ragazza ha confermato di essere stata in contatto con qualcuno che ne aveva finanziato il viaggio già da prima di partire, ma di non sapere chi fosse questa persona.
 
Una certa reticenza è emersa anche nel ricostruire le tappe dell’arrivo a Cuneo: mentre l’amica aveva parlato di un uomo di colore che le aveva accompagnate in taxi fino alla stazione, lei afferma di non ricordarsene e di non sapere dove dovessero andare di preciso. Una sola cosa era certa fin dall’inizio: c’era un debito da ripagare con la donna che le aveva fatte arrivare in Italia.
 
Loro la chiamavano ‘auntie’ (‘zietta’) e l’avevano conosciuta solo dopo essere arrivate a Cuneo. A lei dovevano consegnare tutto il ricavato della loro attività, oscillante tra i 100 e i 150 euro al giorno, più di 3mila euro in un mese. Non ci sono mai state discussioni sull’ammontare esatto del debito: “Era qualcosa di meno di 30mila euro” azzarda la testimone, aggiungendo però che “con ‘auntie’ non abbiamo mai parlato di quanto a lungo avremmo dovuto fare questa vita”.
 
La prossima udienza è fissata all’8 gennaio 2020 per la discussione.

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