BOVES - Omicidio Nada Cella, la Procura si gioca tutto con un testimone a sorpresa

Ci sarebbe una persona in grado di collocare Annalucia Cecere sulla scena del delitto. Un possibile “asso” per gli inquirenti dopo il mancato responso sui test del Dna

a.c. 22/02/2023 17:50

Si pensava che sarebbe stato il Dna a decidere il destino dell’inchiesta sulla morte di Nada Cella, un “cold case” che dura da quasi ventisette anni.
 
La giovane segretaria di Chiavari, non ancora venticinquenne, fu massacrata con un oggetto contundente il 6 maggio del 1996, nello studio del commercialista per cui lavorava. Il delitto di via Marsala è rimasto da allora uno dei grandi misteri della cronaca nera italiana. Tante le incognite a cominciare dall’arma del delitto, mai ritrovata. E dal possibile movente dell’assassino: Marco Soracco, il suo datore di lavoro, fu sospettato in un primo tempo ma presto scagionato. Anche altre piste, legate alla mafia albanese o a una donna con problemi mentali che viveva nel palazzo, vennero accantonate.Fino al 2021, quando un’inaspettata svolta riapre un’inchiesta che sembrava chiusa per sempre, puntando in direzione di Cuneo.
 
L’indagata è Annalucia Cecere, una ex maestra elementare e madre di famiglia: ha tre anni in più dell’età che avrebbe Nada se fosse ancora viva e a Chiavari, dove ha vissuto fino a pochi mesi dopo il delitto, qualcuno si ricorda di lei. A cominciare da Soracco. Mettendo insieme le tessere sparse del mosaico, la criminologa Antonella Delfino Pesce è arrivata a ipotizzare che la Cecere potesse aver ucciso Nada, al culmine di una violenta lite, perché innamorata di Soracco e convinta che la sua giovane segretaria fosse di ostacolo a una loro possibile relazione.
 
Tra i vari indizi raccolti si credeva che il più consistente potesse arrivare dal Dna. Si sapeva infatti che una traccia genetica, riconducibile a un individuo di sesso femminile, era stata ritrovata sulla camicetta della vittima e mai identificata. Non ha però portato a nulla il lavoro che il genetista Emiliano Giardina, lo stesso del caso Yara Gambirasio, ha portato avanti per oltre un anno. Il codice genetico è incompleto e in questi quasi trent’anni i reperti, secondo quanto trapela dalle fonti investigative, sarebbero stati conservati male. La circostanza sembrava preludere a una probabile archiviazione dell’indagine a carico della ex maestra, ma pare ora che la Procura di Genova abbia intenzione di giocarsi tutte le sue carte.
 
Ci sarebbe infatti un testimone in grado di collocare l’indagata sul luogo del delitto, nel giorno e nell’orario in cui avvenne l’aggressione. Fitto il mistero sulla possibile identità di questa persona. Non è però la prima volta che una testimonianza punta in direzione della Cecere, che all’epoca viveva a un centinaio di metri appena dal palazzo di via Marsala 14. Una vicina di casa, sentita dai carabinieri, aveva parlato del suo astio verso Nada Cella. Una mendicante e suo figlio invece avevano detto di aver visto una ragazza - mai riconosciuta - aggirarsi con una mano insanguinata in piazza Cavour, due minuti a piedi da via Marsala. Poi c’erano state le telefonate, tra cui quella di un’altra vicina di casa della Cecere che affermava di averla vista uscire molto presto in motorino, contrariamente alle sue abitudini.
 
Del motorino aveva parlato anche la misteriosa “signorina”, una donna in età avanzata che aveva chiamato più persone per raccontare un episodio riguardante l’allora 28enne, addetta alle pulizie in uno studio dentistico. La “signorina” - così si qualificava, rimanendo anonima - riferiva di averla vista in via Marsala “tutta sporca”, mentre infilava qualcosa nel vano portaoggetti del motorino. Diceva anche di averla sentita minacciare qualcuno di “spaccarle la testa in due”, e di non essere la sola a conoscenza della circostanza: “Abbiamo parlato con qualche ragazza tra noi e abbiamo detto ce l'ha l'ardire”. Ma di quali “ragazze” si trattava? Un’ipotesi è che l’autrice delle telefonate fosse una suora e che le ragazze a cui allude fossero quelle dell’“Opera Pia Carità e Lavoro”, l’istituto religioso nel quale Annalucia Cecere era stata accolta dopo la morte dei genitori e che le aveva messo a disposizione l’alloggio. Ogni tentativo di identificare quella voce, vecchia ormai di oltre mezzo secolo, è finora andato a vuoto. Ma in una nuova testimonianza potrebbe esserci qualcosa che getta uno spiraglio di luce in un cono d’ombra lungo ventisette anni.

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