L’ultima volta che Antonio Bellino ha visto sua mamma è stato un giovedì, il 27 giugno dello scorso anno. Era appena tornato da Vicoforte, dopo un colloquio con la direttrice di una casa di riposo: si discuteva proprio della mamma, della possibilità di ricoverarla in struttura, ora che i segni del declino cognitivo, provocati dall’Alzheimer, iniziavano a diventare evidenti. Lei, Maria Orlando, non ne sapeva ancora niente. Lo sapeva il marito, Ernesto Bellino, anzi era stato lui a chiedere al figlio di aiutarlo a trovare una soluzione. Il figlio si commuove, nella grande aula del tribunale, a ricordare quell’ultimo pomeriggio insieme: “Tornando dai miei genitori ho parlato con papà. Mi aveva risposto che ne avremmo riparlato e poi aveva aggiunto: ‘Vai a casa che hai figli, non ti preoccupare’”. Antonio non sapeva che non avrebbe mai più rivisto sua mamma viva nella casa di Beinette. Il papà sì, dopo un mese, trascorso prima in carcere e poi in un ricovero forzato a Bra: “La prima frase che mi ha detto è stata ‘eccomi qua, sono l’assassino di tua mamma’”. Ernesto Bellino, operaio in pensione, classe 1949, oggi vive in una casa di riposo e attende l’esito del processo che lo vede imputato per l’omicidio della moglie, dove lo difende Fabrizio Di Vito. Un dramma della disperazione, si era detto subito dopo la scoperta del fatto e l’arresto. Ma la disperazione, in questo caso, non è dettata dall’abbandono. Ad aiutare entrambi i genitori c’era il figlio, c’erano i servizi sociali, c’era una badante che solo da un paio di mesi era entrata nella vita di Maria ma che lei, dice Antonio, considerava già come una figlia: “La portava in giro, si è prestata molto: spesso andavano al bar insieme a prendersi un gelato”. Proprio per questo marito e figlio esitavano a farla ricoverare, sebbene una ventina di giorni prima lei fosse finita in ospedale per una crisi. La direttrice della struttura di Vicoforte aveva suggerito ad Antonio di aspettare un po’ e poi rivedersi, questa volta insieme alla mamma. Anche il papà era d’accordo: “Il giorno dell’omicidio ero in ufficio. Ricordo di aver mandato dopo le 8 un messaggio a mio padre per chiedergli se ci fossero novità, ma nessuno rispondeva: ho chiesto a mia moglie di passare dai miei. Dieci minuti dopo lei mi ha chiamato, dicendomi di venire a casa perché era successo un casino: ho immaginato qualcosa”. Cosa sia scattato nella mente di Ernesto Bellino non è chiaro fino in fondo: “Ha spiegato che non riusciva a gestire lo stress legato alla malattia di mia mamma” racconta il figlio. Lui si è costituito parte civile contro il papà, dice di sentirsi in dovere di farlo. Eppure continua ad andarlo a trovare, ancora oggi: “Perché è comunque mio padre”. L’Alzheimer, certo. La paura di affrontare un abbandono definitivo, lui che faticava perfino a sopportare un distacco temporaneo: è questa, spiega Antonio, la ragione per cui Maria ed Ernesto avevano deciso di ritrovarsi dopo aver già considerato l’idea della separazione, una decina di anni prima. Lei era andata via di casa per qualche giorno, ospite di suo figlio, aveva mandato avanti le pratiche. Poi entrambi ci avevano ripensato: “Ho detto che per me andava bene, l’importante era che non ricadessero negli stessi problemi”. E invece i problemi erano sempre lì: liti continue, ripicche, recriminazioni di entrambi con il figlio, costretto a fare da paciere tra uno e l’altra. “Litigavano spesso per svariati motivi, - dice lui - un po’ la gelosia di mamma, un po’ la pignoleria del papà, un po’ anche perché i miei figli non frequentavano più i nonni: io venivo ripreso per non essere un bravo genitore, ma c’erano dei motivi per cui i ragazzi non volevano più andare. Non era un ambiente sereno”. E poi c’era la malattia. Non solo l’Alzheimer di lei, diagnosticatole tre anni fa e ancora in fase non troppo avanzata, ma anche la depressione cronica del marito. Bellino era stato ricoverato, una volta aveva perfino tentato il suicidio: “Aveva ingerito candeggina da una bottiglia. Penso fosse un gesto legato al fatto che mamma non c’era e noi stavano partendo per un mese per la Sicilia”. La paura dell’abbandono, ancora una volta, e ancora una volta i contrasti legati alla Sicilia. Maria amava la sua Porto Empedocle, la città agrigentina in cui era nata e cresciuta e dove aveva vissuto per lungo tempo con il marito, trasferitosi per lavoro. Ci tornava ogni volta che poteva, mentre Ernesto voleva restare a Beinette, vicino al figlio e chiuso nel suo piccolo mondo: negli ultimi anni si dedicava al fai da te e ai lavoretti in casa, gestiva la spesa e ogni tanto si trovava con gli amici, quando riuscivano a organizzarsi. C’era un contrasto di caratteri, di idee, dice Antonio, perché entrambi “avevano le loro fisse”. C’era anche l’affetto, nei momenti tranquilli: “È che loro senza un litigio non riuscivano a vivere”. Lo sa anche l’ex comandante della stazione carabinieri di Beinette, il maresciallo maggiore Andrea Palazzolo, un amico di famiglia dei Bellino. Sapeva dei problemi di salute di entrambi, della mancata separazione, delle lite continue: sia Maria che Ernesto erano andati in caserma a sfogarsi, lui pare avesse presentato anche una denuncia contro la moglie, poi ritirata. Nulla faceva presagire quella tragedia.