FOSSANO - Viadotto di Fossano, il crollo si poteva prevedere? “Impossibile non notare quella fessura”

Scontro tra i periti delle difese sulle cause del disastro: per alcuni è l’insufficiente quantità di boiacca nei cavi, per altri la mancata impermeabilizzazione

Andrea Cascioli 19/03/2024 15:50

Si pensava di aver messo alcuni punti fermi, condivisi da tutti i consulenti, sulle cause del crollo del viadotto “La Reale” di Fossano. Tra questi, soprattutto, il fatto che la “pistola fumante” fosse la boiacca: o meglio, la sua assenza. Troppo scarsa la miscela di cemento e calce iniettata in alcuni cavi di precompressione del ponte, col risultato che questi ultimi, a contatto con l’acqua, avrebbero iniziato a corrodersi.
 
Anche su questo, però, c’è chi dissente, tra gli ingegneri convocati dai difensori degli imputati. Dodici persone, sei funzionari Anas e sei tecnici e operai delle aziende costruttrici, sono sotto accusa per disastro colposo a seguito del crollo avvenuto lungo la Statale 231, il 18 aprile del 2017. Nell’ultima udienza il giudice ha ascoltato quattro consulenti a cominciare dall’ingegner Bernardino Chiaia, docente di scienza delle costruzioni al Politecnico di Torino e commissario per la linea 2 della metro torinese, chiamato dalle difese del direttore di cantiere Massimo Croce e del capo cantiere Mauro Tutinelli. Anzitutto, era possibile prevedere il crollo? Sì, risponde l’ingegner Chiaia. Senza chiamare in causa le infiorescenze, di cui molto si è parlato, ma un altro particolare: “Poco prima del crollo era presente un’apertura del giunto pari a circa 10 millimetri. Se guardassimo il soffitto di questa stanza, tutti noteremmo una fessura di un centimetro”.
 
Era impossibile non vederla, sostiene il perito, se solo si fosse effettuata un’ispezione. Ma c’era anche un altro indizio: l’abbassamento progressivo del ponte, che nel corso degli anni aveva richiesto “ricariche” di asfalto. “Undici centimetri in più rispetto ai sette originari, posizionati per compensare i dislivelli che derivavano dal progressivo inclinarsi del ponte”: un altro campanello di allarme, non preso in considerazione. L’ingegnere, che ha lavorato anche alle inchieste sui crolli del ponte Morandi e del ponte di Albiano Magra, afferma che la boiacca non sia il sassolino che ha fatto cadere la valanga: “Se non ci fosse stata l’acqua, anche il cavo non iniettato probabilmente non si sarebbe corroso”. La prima causa del collasso strutturale sarebbe quindi “la cattiva gestione delle acque di piattaforma, causata con ogni probabilità dai lavori messi in campo dal concessionario Anas nel 2006-2007 che hanno comportato l’infiltrazione di acqua nelle guaine”.
 
D’accordo sul punto l’ingegner Fabio Mosca, consulente insieme al professor Francesco Bellino per la difesa del direttore dei lavori di Anas, Angelo Adamo: “Il riempimento della guaina non avrebbe inficiato, ma solo posticipato il crollo del ponte. Con l’ingresso dell’acqua e il dilavamento della boiacca ci sarebbe stato comunque l’attacco degli agenti esterni”. I lavori di manutenzione del 2006 avrebbero “inficiato la funzionalità dell’impermeabilizzazione”. Lo testimonierebbe la “prova della pioggia” eseguita dopo il cedimento, bagnando con due irrigatori la pavimentazione: “Ha dimostrato che l’acqua entrava anche dove il riempimento con la boiacca era ottimo”. In ogni caso, sottolinea l’esperto, di metodi esatti per capire quanta boiacca servisse non ce n’erano: “Ancora oggi non possiamo verificare se la guaina si riempia correttamente, ma solo se la procedura sia corretta”.
 
Nemmeno i consulenti dei vari dipendenti dell’Anas concordano tra loro. L’ingegner Stefania Arangio, convocata dalla difesa di Giulio Accili, offre una prospettazione opposta: altro che impermeabilizzazione, il problema era proprio la boiacca. Del resto all’impresa che effettuò gli interventi successivi “non era richiesto di effettuare lavori nella categoria di appalto della pavimentazione”: ergo, non spettava a loro controllare. Tutto ciò che si può dire sui lavori del 2006, afferma Arangio, è mera congettura: “Perché non sono state svolte analisi più approfondite sullo smaltimento delle acque meteoriche. In ogni caso la sicurezza dei cavi non era demandata all’impermeabilizzazione”. E la prova della pioggia? Non è rappresentativa, perché non poteva “ricreare” le condizioni precedenti al crollo. Un’ipotesi, secondo l’ingegner Walter Salvatore, è anche l’esistenza della fessura di un centimetro di cui parla Chiaia: sono dati “stimati da un modello” e “non c’è una testimonianza precedente al crollo che lo attesti”. Il consulente della difesa di Maria Rosalba Vassallo, responsabile tecnica dell’azienda Pel.Car che effettuò i lavori del 2006, è sicuro in merito alle cause del disastro: “È evidente che la protezione sta nella boiacca: ci sono moltissimi impalcati senza impermeabilizzazione. Del resto, dove la boiacca era presente non c’è stato quasi nessun danno”.
 
Il processo proseguirà il prossimo 23 aprile: a quella data, saranno già passati sette anni dal giorno del disastro.

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