C’erano le botte, ma anche le umiliazioni, le liti con i capelli strappati, le notti passate a dormire in auto. Lo dicono i giudici di Cuneo che hanno prestato fede al racconto di una quarantenne monregalese, madre di una bambina in tenera età, sulla verità di quella relazione.
L’ex compagno di lei, imputato di maltrattamenti, è stato condannato a due anni e otto mesi di reclusione, più 10mila euro di risarcimento, con il riconoscimento dell’aggravante di aver agito di fronte a un minore. Si tratta della figlia, appunto, una neonata all’epoca dei fatti: “La Cassazione ci dice che basta un unico atto maltrattante alla presenza del minore e che l’età del minore, purché ‘vigile e presente’, è ininfluente” aveva sostenuto il sostituto procuratore Francesca Lombardi, chiedendo per l’accusato una condanna a tre anni e due mesi.
La “prova regina”, ha ricordato il pm, è costituita dal racconto di lei, che imputa l’origine delle violenze all’abuso di alcol e droga da parte del compagno: “A volte lo trovavo per terra dopo essere rientrata da lavoro. Ha rifiutato sia l’aiuto di un prete, che conosceva, sia quello dello psicologo dove io sarei stata disposta ad andare assieme a lui”. Poi la gravidanza e la nascita della bimba, un possibile nuovo inizio: “C’era la bambina e speravo che lui cambiasse”. Ma le violenze sarebbero già accadute mentre lei era in gravidanza: “Lui mi aveva sferrato un calcio nel sedere e io ero andata a dormire in macchina, per non dover andare l’ennesima volta da mia madre”. Mesi prima di quell’episodio c’era stata la prima denuncia: i carabinieri in servizio quella notte ricordano di averla vista arrivare piangendo, poco prima delle due. Sotto la mascherina si vedevano ferite all’altezza dell’occhio e dello zigomo.
Alla fine, dopo una lite più violenta delle altre, era arrivata la decisione di lasciarlo: “Lui ha colpito nostra figlia sulla schiena lanciando una confezione di yogurt: io mi sono infuriata, ho preso una bottiglia di vino e gliel’ho tirata contro, senza prenderlo”. A quel punto l’uomo si sarebbe avventato contro di lei, colpendola con un manico di scopa fino a farla sanguinare. Un episodio che l’uomo ha descritto in termini molto diversi: “Lei ha sbattuto sul tavolo una racchetta antizanzare e si è provocata qualche graffietto, agitandola”. Per il pubblico ministero anche questa è prova di un atteggiamento “negante e sminuente, teso a ribaltare sulla persona offesa la responsabilità dei fatti”, come già accaduto dopo la prima denuncia: “Quella sera avevamo anche un po’ bevuto: lei è andata fuori di testa, ha inciampato e se l’è presa con me” aveva raccontato l’imputato in merito alla precedente contestazione.
Eppure nell’arco di due anni, ha sottolineato l’accusa, risultano tre diversi interventi dei carabinieri e due accessi ospedalieri: normali litigi? “C’è stata una reazione istintiva di fronte a un’aggressione: questo fa venire meno la condotta di maltrattamento? La corte di Cassazione ci dice assolutamente no”. Anche l’avvocato Mario Vittorio Bruno, patrono della parte civile, ha parlato dello scontro tra due personalità: quella “molto incombente” dell’uomo e quella della donna, “schiva, prudente e riservata, tanto da non rivelare nemmeno ai genitori quel che succedeva in famiglia”. Per “quieto vivere”, si è giustificata lei, fino alla rottura definitiva: “Non volevo che mia figlia vedesse un padre violento e ubriaco”.
Per l’avvocato Ivana Tolardo, difensore dell’uomo, i “litigi di coppia vedevano due personalità forti, contrastanti: le persone sentite riferivano di udire toni accesi anche da parte della donna”. La maggior parte degli episodi descritti, ha sostenuto la difesa, “non sono supportati né da referti medici né da testimoni in grado di confermare quanto indicato”. Ci sono poi le relazioni dei servizi sociali, che oggi descrivono l’accusato come “un uomo premuroso, attento alla bambina, che le prepara i pasti”.