COSTIGLIOLE SALUZZO - “Lui la voleva sottomessa”: il pm chiede la condanna a quattro anni e mezzo

Veniva picchiata già quando era incinta, sostiene l’accusa: “Succube di una cultura che la voleva sottomessa”. Anche per la difesa c’è “un problema culturale”

Andrea Cascioli 21/07/2025 10:30

“Lui si arrabbiava per come lei si vestiva, versava a terra l’olio per obbligarla a pulire, la privava della libertà di scelta”: è il retaggio più deteriore di una certa “cultura albanese”, sostiene il pubblico ministero, nel chiedere la condanna a quattro anni e sei mesi per un uomo accusato di maltrattamenti sulla ex moglie. Oltre dieci anni di convivenza per la coppia, che all’epoca risiedeva a Costigliole Saluzzo, prima che lei decidesse di dire basta: “La loro relazione - sostiene il pm Anna Maria Clemente - è stata un susseguirsi di episodi in cui lei veniva picchiata anche quando era incinta. Ed è proprio lei a ridimensionare i fatti quando dice che erano ‘solo schiaffi’, succube di una cultura che la voleva sottomessa”. Un atteggiamento compendiato, secondo l’accusa, nell’idea che “la donna deve fare tutto quello che dice il marito”. La donna aveva parlato dei presunti maltrattamenti anche ad estranei, come una signora che aveva incontrato per motivi di lavoro: “Si vergognava a raccontare, la considerava una cosa innaturale: poi ha iniziato a confidarsi, dicendo che aveva subito violenze fin dal giorno del matrimonio. Quel giorno suo marito le aveva messo le mani al collo”. Un atteggiamento da “padre padrone” è riflesso anche nelle parole del fratello di lei: “Qualsiasi cosa mia sorella dicesse non gli andava bene: l’uomo prendeva le decisioni”. L’episodio più controverso risale al 2017, ne è testimone la mamma della persona offesa. Ospite in casa del genero e della figlia, afferma di essere stata a sua volta aggredita perché si era intromessa in una discussione: “Io gli chiedevo di smettere, perché lei aveva avuto un intervento chirurgico pochi anni prima. Lui la picchiava ancora più forte”. Perfino la nipotina sarebbe intervenuta: “Ha detto che poteva chiamare i carabinieri, perché a scuola le avevano appena insegnato il numero”. “Siamo in un contesto di violenza assistita, quella che i figli sono costretti a vivere e vedere in casa con conseguenze terribili sul loro sviluppo psicofisico” argomenta il pm, secondo la quale a redimere certi atteggiamenti “non è bastato neanche il trasferimento in Italia e il confronto con una diversa cultura”. Elevata la richiesta di risarcimento della parte civile, che ammonta a centomila euro. “Le deposizioni di madre e figlia - sottolinea l’avvocato Salvatore Mannino - sono state drammatiche e loro intrinsecamente credibili, le loro versioni confermate da vari testimoni che hanno riferito di una donna che parlava con pudore e ritrosia di quello che accadeva in casa perché se ne vergognava profondamente”. Anche il patrono di parte civile parla di “una storia di soggezione, subcultura, oppressione”, maturata “in un ambiente che pretendeva da lei sottomissione”. Concorda sulla sussistenza di un “problema culturale” il legale dell’imputato, l’avvocato Paolo Botasso. Non, invece, su quanto a suo giudizio è stato “distorto senza fornire elementi cronologici e fattuali che potessero confermare le accuse”. “Perché - domanda il difensore - se la situazione era così terribile e i parenti erano a conoscenza, non c'è stata denuncia fino a quando la donna ha lasciato la casa con i figli?”. In ogni caso, aggiunge, nessuna violenza è attestata fino al 2017: “Sono singoli episodi, a volerli credere”. Il prossimo 16 settembre il giudice pronuncerà la sentenza.

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