Dovranno pagare 12mila euro ciascuna alla Monge, oltre a una multa di 300 euro, le due donne condannate per alcuni commenti diffamatori su Facebook nei confronti della nota azienda con sede a Monasterolo di Savigliano.
Lo ha stabilito il giudice Elisabetta Meinardi, accogliendo le richieste della Procura nei confronti di L.B., ex dipendente della Monge, residente a Racconigi, e della fossanese P.B., sua coimputata. Si parlava di mangimi realizzati con carcasse di animali randagi, riferimenti al “pesce scaduto” o al latte altrettanto scaduto e poi congelato, crudeltà varie: “Quando hanno tritato i pulcini vivi le uova si erano schiuse”. Chi scriveva queste frasi, intervenendo sul profilo di un’amica, assicurava di aver visto tutto con i suoi occhi: “In Monge ci ho lavorato, tritavano anche i gatti che trovavano in giro”. A darle manforte era intervenuta un’altra utente del social, con questa osservazione: “Gente come quella risolve tutto con la famosa mazzetta”.
Frasi talmente gravi da indurre l’azienda di Monasterolo di Savigliano, un colosso del settore con 500 milioni di euro di fatturato, a presentare denuncia. “Con queste affermazioni - ha sottolineato il pm Anna Maria Clemente - si mette in dubbio non solo la reputazione morale e professionale dell’azienda, ma la stessa serietà nei confronti dei clienti”. Il colosso dell’alimentazione animale si è difeso convocando sul banco dei testimoni l’amministratrice delegata, Franca Monge: “I fornitori - ha precisato - sono macelli, prima di vendere le carni il macello emette un certificato di idoneità controllato dal nostro ufficio controllo qualità e dall’Asl”. Per gli arrivi dall’estero, ha aggiunto, viene tracciato anche il Dna.
In aula avevano parlato entrambe le imputate, offrendo il proprio punto di vista. L.B., l’ex dipendente, ha ammesso di aver scritto i commenti ma di essersene poi dimenticata: la questione dei gatti, a suo dire, era un riferimento alla presenza di randagi in stabilimento, uno dei quali era stato adottato da lei stessa. P.B. aveva invece negato ogni addebito, sostenendo di essere vittima di un mero caso di omonimia. “Non è accettabile che si possa accedere a mezzi di comunicazione di massa, scrivere commenti diffamatori e poi dimenticarselo pensando di restare impuniti” ha obiettato il patrono di parte civile.
Entrambe le difese hanno menzionato la precedente richiesta di archiviazione della Procura, quando le affermazioni contestate erano state ritenute non diffamatorie. Il legale di P.B. ha giudicato carenti le indagini svolte: la sua assistita, ha detto, “è ritenuta responsabile in base a un post che porta il suo nome, nulla di più”. In ogni caso il riferimento alla “mazzetta” sarebbe “una classica frase fatta che non caratterizza l’elemento oggettivo della diffamazione”. Per l’avvocato di L.B., nemmeno la natura pubblica dei commenti è acclarata: “Si poteva trattare di messaggi privati e nulla ha dimostrato il contrario”.