CUNEO - 1835, a Cuneo arriva il colera: la storia di una drammatica epidemia

La malattia fece la sua comparsa nel Bengala nel 1817, per arrivare nella Granda quasi vent'anni dopo: non mancano le analogie con i tempi che stiamo vivendo

Via Alessandro Ferraris di Celle, intitolata al sindaco di Cuneo del 1835
L'attuale via Peveragno: all'incrocio con corso Giovanni XXIII sorgeva casa Serra, utilizzata come lazzaretto nel 1835

Andrea Dalmasso 08/08/2021 07:46

Contagio, quarantena, sanificazione. Parole che sono entrate nel vocabolario comune di ognuno di noi a partire dall’inizio del 2020, con l’esplosione della pandemia da Covid-19 che ora, anche grazie alla campagna vaccinale, stiamo faticosamente cercando di metterci alle spalle. Non è di certo la prima volta, però, che un nemico invisibile e silenzioso arriva a stravolgere le vite di tutti: tantissime le epidemie che l’uomo ha dovuto affrontare nella storia, molte di queste hanno coinvolto da vicino anche la nostra Granda. Nell’800, per esempio, Cuneo e le zone limitrofe si ritrovarono per ben quattro volte a fare i conti con il colera: la prima volta nel 1835, e poi ancora nel 1854, nel 1866 e nel 1884. A ricostruire quegli eventi, che hanno pesantemente segnato sotto tanti punti di vista il XIX secolo della città, è un libro di Giovanni Dutto, pubblicato quest’anno da Primalpe, dal titolo “Le epidemie di colera a Cuneo nel 1800”.
 
Comparso per la prima volta nel Bengala nel 1817, il colera - che si manifesta nella gran parte dei casi con diarrea, vomito e forte disidratazione - sembrò placarsi nel 1823, fermandosi alle porte dell’Europa. La malattia tornò però a manifestarsi nel 1829 in Russia e da lì, favorita da collegamenti ferroviari sempre più moderni e rapidi, si diffuse in tutto il continente, sebbene con una velocità imparagonabile a quella che abbiamo vissuto lo scorso anno durante le prime fasi della pandemia di Covid-19: il colera, infatti, si manifestò per la prima volta in Italia solamente nel 1835, sei anni dopo il suo ingresso nel vecchio continente. La malattia fece la sua comparsa nel Cuneese nella seconda metà del mese di luglio: i primi centri ad essere colpiti furono Saluzzo, Savigliano, Genola, Racconigi e Cavallermaggiore, da lì il contagio si diffuse verso sud. Secondo alcuni autori a portare l’epidemia nella città di Cuneo furono le donne dei contrabbandieri che avevano smerciato coperte e tessuti provenienti dalle zone infette della Provenza, un’ipotesi però impossibile da accertare con i mezzi dell’epoca. Il colera, in ogni caso, aveva facilmente superato i “cordoni sanitari” disposti ai confini del Regno. Già sul finire del 1834, quando la malattia scoppiò con violenza tra Marsiglia e Nizza, la Giunta provinciale di Sanità aveva invitato i sindaci ad effettuare indagini sulla situazione sanitaria nei loro territori disponendo controlli, presidi militari e quarantene sia per i viaggiatori che per le merci in transito alle frontiere: viaggiatori e contrabbandieri che però, evidentemente, conoscevano bene i sentieri alpini e riuscivano in questo modo ad eludere i controlli senza troppe difficoltà. Quale che fosse stata la strada percorsa dal contagio, in ogni caso, il colera arrivò nella città di Cuneo alla fine di luglio, proprio nei giorni in cui il Consiglio comunale aveva inviato a Nizza il dottor Luigi Parola, incaricato di studiare e acquisire tutte le informazioni possibili sulla malattia: il flagello sarebbe durato fino a settembre, con picco nella prima decade di agosto.
 
Chi ne aveva la possibilità lasciò la città ritirandosi in campagna prima dell’arrivo dell’ondata, con conseguenze anche economiche per le attività dell’altipiano. La situazione precipitò rapidamente, anche a causa delle condizioni igieniche disastrose in cui vivevano molte persone (e in cui versavano molte zone della città): Cuneo era allora sprovvista di un sistema fognario, e l’impossibilità di espansione data dalla conformazione del territorio e dalle fortificazioni si traduceva in spazi urbani angusti, poco areati e affollati. Negli anni precedenti, con le notizie sul colera che arrivavano dal resto d’Europa, la Giunta sanitaria aveva a più riprese diffuso norme che imponevano a cittadini ed attività di commerciali di curare pulizia e decoro delle aree urbane, ma in molti casi queste regole non venivano rispettate. Quando il colera fece il suo arrivo in città, la Giunta cittadina si trovò costretta a cercare spazi da adibire a lazzaretto per i malati: venne scelta casa Serra, posta all’attuale incrocio tra via Peveragno e corso Giovanni XXIII. I proprietari furono costretti a sgomberare i locali dietro indennità economica (definita all’epoca “non lauta”). Si scelse anche una seconda struttura, nel caso la prima si fosse rivelata insufficiente, il casino del signor Ghinotto, nei pressi della strada reale di Nizza (l’attuale corso Nizza). Analoghe operazioni furono effettuate nei centri circostanti, non senza frizioni con i proprietari degli stabili. Il bilancio, alla fine dell’epidemia, per la città di Cuneo fu tragico, anche più grave di quanto le notizie arrivate dalle zone precedentemente colpite avevano fatto prevedere: fu necessario ampliare il cimitero urbano, e le sepolture avvenivano solo dopo aver cosparso il cadavere con cloruro di calce.
 
A novembre del 1835 il sindaco Alessandro Ferraris di Celle scrisse ai parroci della città per avere un preciso resoconto dei decessi avvenuti nei due mesi in cui il colera aveva imperversato, indicativamente tra la fine di luglio e la fine di settembre. Eloquenti le comunicazioni arrivate dai sacerdoti, tra le quali riportiamo le più impressionanti. Dalla parrocchia di Santa Maria della Pieve il vicecurato don Vincenzo Maria Demattey comunicò che dal 28 luglio al 28 settembre erano morte 133 persone: nello stesso periodo erano state in totale 134 negli otto anni precedenti. Da Sant’Ambrogio il sacerdote Delfino riferì invece di 92 decessi tra il 28 luglio e il 18 settembre, negli anni precedenti la media era stata di 10-12. Dalla cattedrale il parroco Sebastiano Giordana riportò di 193 morti dal 28 luglio a fine agosto: erano stati complessivamente 87 nei cinque anni precedenti. La situazione non era migliore nelle frazioni: a San Rocco Castagneretta dal 27 luglio al 13 settembre si piansero 96 morti, contro una media di 6-9 negli anni precedenti, a Passatore i decessi nello stesso periodo furono 164, contro i 7-10 degli anni precedenti, a Madonna dell’Olmo morirono 60 persone, negli anni precedenti si era verificato un decesso all’anno. In Italia, in totale, si stima che l’epidemia di colera tra il 1835 e il 1837 fece 236.473 vittime: fu la più devastante del secolo insieme a quella del 1854-1855, durante la quale morirono 248.514 persone.
 
Anche a Cuneo e dintorni si presentava così, come detto, un problema legato al seppellimento, con l’esproprio di terreni a privati per l’ampliamento dei cimiteri: le norme imponevano di seppellire i cadaveri ad almeno due metri di profondità ricoprendoli come detto con uno spesso strato di calce. In alcuni casi, riporta Dutto nel suo libro, lo spazio era ugualmente così ristretto che scavando si incontravano i corpi delle vittime precedenti non ancora decomposti. Una situazione che richiama alla mente le sinistre immagini della primavera del 2020, con i camion dell’Esercito che trasportavano in forni crematori fuori città le bare con le vittime del Covid di Bergamo. Non è però questa l’unica analogia che si può trovare tra l’attuale pandemia e l’epidemia di colera del 1835. Anche allora, come oggi, all’interno del mondo scientifico c’erano diverse correnti di pensiero sia sulle possibili cure che sulle modalità di propagazione della malattia. Cura realmente efficaci, in realtà, non esistevano: i medici sapevano riconoscere i sintomi del colera, ma non avevano vere “armi” per combatterlo. Anche allora si fecero così strada tantissime teorie strampalate di sedicenti esperti: tra chi sosteneva che assumere alcool aiutasse a proteggersi dal contagio, chi spiegava che sparare colpi di cannone aiutasse a “smuovere e purificare l’aria” e chi affermava che una fervida attività sessuale aumentasse le difese immunitarie e tenesse lontano il colera, anche durante l’epidemia di colera del 1835 l’incertezza era ai massimi livelli e creava terreno fertile per le teorie più strambe e disparate. Una delle notizie più curiose, in questo senso, riguarda l’acquisto di 471 pecore da parte del Comune di Cuneo. Era infatti circolata la voce che a Pamplona, in Spagna, il contagio da colera si era arrestato dopo l’arrivo in città di un gregge di pecore merinos. In un momento così drammatico la notizia venne ritenuta credibile, e il Comune acquistò gli animali in alta valle Stura, affidandoli a un gruppo di mandriani. Dal 18 agosto al 15 settembre le pecore furono lasciate libere di pascolare in città: gli animali non solo non venivano cacciati, ma venivano fatti entrare di proposito nei cortili, nelle botteghe, negli androni delle case e sotto i portici. Alla fine dell’epidemia le pecore vennero poi messe all’asta dal Comune, che chiuse questa bizzarra operazione con un attivo di 1.569,85 lire.
 
Con l’arrivare dell’autunno, in ogni caso, il colera per Cuneo divenne un ricordo passato, così come la grande paura. Nel 1836 le raccomandazioni delle autorità sanitarie, con indicazioni organizzative per una tempestiva risposta in caso di nuovi contagi, tornarono a mettere sull’attenti i Consigli comunali, ma l’estate passò senza che la malattia tornasse a manifestarsi, e così anche negli anni successivi. Il colera tornò poi a ripresentarsi in forma epidemica in Italia tra il 1848 e il 1849, ma colpì quasi esclusivamente il nord est. In Piemonte ricomparve all’inizio degli anni ’50: per Cuneo l’incubo tornò sul finire dell’estate del 1854.
 

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