CUNEO - Cent’anni fa nasceva Don Lorenzo Milani, il fondatore della Scuola di Barbiana

Soltanto dopo la morte del priore “Lettera a una professoressa” diventò un caso letterario, uno dei testi sacri del ’68 italiano

d.b. 17/02/2023 12:39

Il 2023 è l’anno del centenario della nascita di don Lorenzo Milani, il priore di Barbiana che scrisse nel 1967 insieme ai ragazzi della sua scuola un libro straordinario, “Lettera ad una professoressa”, in cui denunciava l’arretratezza e la disuguaglianza nella scuola italiana, un duro atto d’accusa verso l’intero sistema scolastico. Del valore del libro si accorse subito (ma fu l’unico) un grande intellettuale: Pier Paolo Pasolini. Soltanto dopo la morte del priore “Lettera a una professoressa” diventò un caso letterario, uno dei testi sacri del ’68 italiano.
 
Nonostante l’opposizione della sua famiglia, benestante, colta e laica, Lorenzo Milani a vent’anni scelse di diventare sacerdote. Il suo primo incarico pastorale fu in una piccola parrocchia alle porte di Firenze, San Donato a Calenzano, dove trovò una comunità rurale arretratissima. Decise allora di aprire una scuola popolare, dove l’insegnamento partiva dalla lettura dei giornali. analizzando i temi dell’attualità e soffermandosi a lungo sui termini più difficili. Si convinse grazie a quella esperienza che solo la cultura potesse aiutare i contadini a superare la loro rassegnazione e che l’uso della parola equivalesse a ricchezza e libertà. Diventato ben presto scomodo, venne esiliato a Barbiana, un paesino di 124 abitanti sui monti del Mugello. Appena arrivato, fondò anche lì una scuola popolare per i figli di operai e contadini. Quella di Barbiana era una scuola all’avanguardia; si studiavano l’inglese, il francese, il tedesco e persino l’arabo. Si organizzavano viaggi di studio e lavoro all’estero. Don Milani spesso teneva lezioni di recitazione per far superare le timidezze ai ragazzi più introversi e costruì una piccola piscina per aiutare i montanari ad affrontare la paura dell’acqua. Nella sua scuola si studiava dodici ore al giorno, 365 giorni all’anno. Si leggeva il Vangelo, ma senza cercare di indottrinare i ragazzi. Il motto della scuola di Don Milani era: “I care”. È  il motto intraducibile dei giovani americani migliori. ‘Me ne importa, mi sta a cuore’. E il contrario esatto del motto fascista ‘Me ne frego’, scrisse in “Lettera ai giudici”.
 
Don Milani e la sua opera sono stati oggetto , nel corso degli anni, di forti polemiche, di strumentalizzazioni, di grandi amori e forti avversioni.  Come avvicinarsi, oggi, a un’opera come “Lettera a una professoressa”? Don José Luis Corzo, religioso scolopio, che ha fondato nel 1971 la Casa-scuola “Santiago 1” a Salamanca ispirandosi all’opera di don Lorenzo Milani, suggerisce di riprendere in mano Lettera a una professoressa partendo dalla propria esperienza personale: “Far ricorso alla propria esperienza leggendo la sua, avvicinarsi a essa con le risposte e le domande che già ci incombono dentro, decisi a confrontare con lui le nostre ragioni più autentiche e profonde, quelle che cerchiamo in lui. Tali ragioni non sono né idee né consegne intransigenti, ma crivelli, filtri per l’azione, punti di vista e, in definitiva, libere opzioni”. Come ha scritto Gianni Rodari: “Tutti gli usi della parola a tutti. Mi sembra un buon motto, dal bel suono democratico. Non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo”.
 
Nella scuola di Barbiana al centro di tutto era la relazione tra le persone e don Milani usava il suo carisma, per nulla melenso, per far trovare ad ogni ragazzo il suo talento, il coraggio di coltivare i propri sogni, di seguire le proprie inclinazioni. Più del metodo contava la relazione. La scuola del Duemila va in direzione ostinatamente contraria a quell’esperienza. Ipnotizzati dai falsi miti del “politicamente corretto” i ministri dell’istruzione e i loro staff hanno sistematicamente cercato di creare una barriera tra docenti e allievi, nel nome dell’oggettività della valutazione, spersonalizzando sempre di più il ruolo del docente, riducendolo a burocrate che passa la maggior parte del tempo a compilare schede, prospetti, rilevazioni statistiche. Un misuratore, più che un insegnante. Per fortuna esistono ancora le eccezioni, i docenti che tentano di difendere quella che un tempo si chiamava “missione dell’insegnamento”, ma tutto e tutti sembrano giocare contro di loro: dirigenti, genitori, psicologi, media. Proprio la dilagante categoria degli psicologi sembra aver soppiantato una delle più importanti funzioni del docente, quella di accompagnatore, riferimento, guida oltre i contenuti meramente disciplinari. La scuola del Duemila avrebbe fatto inorridire don Milani, perché forse intimamente ancora più classista di quella che lui conobbe. Oggi chi ha una famiglia solida e colta alle spalle può sopravvivere al percorso scolastico ( soprattutto nella scuola secondaria) e coltivare le proprie inclinazioni, i propri interessi. Chi non ha questa fortuna, si perde. Ciò non significa necessariamente che abbandoni la scuola, ma che la viva passivamente, che se la lasci scivolare addosso. Come una cosa inutile. E questa è la morte della scuola e a nulla valgono tutti i registri elettronici di questo mondo, le lavagne interattive, i tablet… La tecnologia non potrà mai sostituirsi alla relazione vera, profonda, magari anche sanamente conflittuale tra allievi e insegnanti. I ragazzi devono imparare a confrontarsi con chi ha opinioni diverse dalle proprie e a gestire il conflitto.   
 
Purtroppo in Italia, nel 2023, durante il Festival di Sanremo, si dà ancora spazio a frasi come questa: "Fare i contadini non è umiliante, fare il contadino con la laurea sì: vuol dire che hai fallito due volte”. Povero Don Milani, poveri noi che viviamo in mezzo a contraddizioni, ipocrisie, false convinzioni, regressioni, chiusure, moralismi che speravamo superati per sempre. Errore gravissimo. Eppure sono, siamo in pochi a ribellarsi, a dire: basta.
 
Alberto Arbasino scriveva di Pier Paolo Pasolini in un articolo pubblicato su Il Giorno nel 1964: “Una larga sezione della nostra cultura gli ha deferito questo incarico, di rischiare a nome di tutti: perché è vero che chi scandalizza i puri di cuore va sacrificato a nome della collettività (che è rimasta a casa a godere a soffrire)”. La stessa considerazione valeva per don Milani. Per chi potrebbe valere, oggi?

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