DEMONTE - Il miracolo di Bergemoletto. Quando tre donne sopravvissero 37 giorni sotto una valanga

La grande valanga del 1755 seppellì un’intera borgata sopra Demonte. Ma una famiglia, rifugiata in una stalla, riuscì a resistere per oltre un mese grazie a due capre

in foto: il frontespizio del trattato di Ignazio Somis sulla valanga di Bergemoletto

Andrea Cascioli 19/03/2023 18:30

Era il giorno di San Giuseppe dell’anno del Signore 1755. Un giorno che a Bergemoletto, all’epoca una borgata di Demonte popolata da circa centocinquanta anime, nessuno avrebbe più dimenticato. Poco dopo le nove del mattino di quel mercoledì, mentre il parroco si avviava alla messa, tre slavine cadute dal monte Bourel si abbatterono, una dopo l’altra, sulle povere case e sugli sventurati che le abitavano, uomini e animali. Morirono ventidue persone, una trentina di abitazioni furono spazzate via. Tra le vittime c’era don Giulio Cesare Emmanuel, da più di quarant’anni pastore spirituale di quel piccolo gregge: si racconta che venne trovato solo al disgelo, sul finire di aprile, in mano un rosario stretto nell’ultima preghiera.
 
La grande valanga del 19 marzo 1755 non è certo stata l’unica e nemmeno la più disastrosa tra quante seminarono lutti e distruzioni sulle nostre Alpi. Basti dire che solo in quello stesso mese si conteranno oltre 200 morti nelle vallate del Cuneese, di cui ben 42 nella val Grande: erano tempi, del resto, in cui le borgate alpine erano affollate come oggi non riusciremmo più a immaginarle. Ma la sciagura di Bergemoletto è ricordata tuttora nelle ballate della valle Stura ed è stata oggetto di studi - partendo da quello, pionieristico, del medico di Carlo Emanuele III, Ignazio Somis - per via di un fatto eccezionale, accaduto a tre sopravvissute. Anna Maria Rocchia, la figlia Margherita e la cognata Anna sono considerate a tutt’oggi le detentrici del record di sopravvivenza sotto una valanga, sia pure non a diretto contatto con la neve.
 
I soccorritori scoprirono dopo ben trentasette giorni, il 25 aprile, che le tre donne erano sepolte sotto una coltre bianca, ma ancora vive. A ripararle era stata la stalla attigua all’abitazione, dove le Rocchia si erano rifugiate non appena il capofamiglia Giuseppe e il figlio Giacomo, intenti a spalar neve sul tetto, si erano accorti di quanto stava per accadere e avevano gridato al resto della famiglia di mettersi in salvo. Anna Maria, la moglie di Giuseppe, aveva allora quarant’anni, sua cognata Anna ventiquattro. Insieme alle adulte c’erano due dei figli di Anna Maria, Margherita di undici anni e Antonio di appena cinque. Quest’ultimo, troppo piccolo per sopportare quella prigionia, sarebbe morto di febbre dopo alcuni giorni.
 
Erano spaventose le condizioni in cui Giuseppe e Giacomo, sopravvissuti anche loro, ritrovarono le loro familiari dopo oltre un mese di lenta agonia, in un cunicolo lungo tre metri e mezzo, largo poco più di due e alto quel tanto che bastava da rannicchiarcisi. Oltre al cadavere del piccolo Antonio, c’erano le carcasse imputridite degli animali: un’asina, sei capre, una dozzina di galline. Cosa potessero aver vissuto ha provato a immaginarlo il giornalista del Piccolo Pietro Spirito nel suo “La grande valanga di Bergemoletto”, un resoconto semi romanzesco dei fatti: “Lo scarso nutrimento che la capra dava alle meschine e che nei giorni aveva loro tolto forze e sostegno; il freddo che le gelava senza tregua; la posizione incomoda delle gambe nella mangiatoia che dava loro solo tormento e mai sollievo; la neve, che al di sopra si squagliava e gocciolava loro addosso inzuppando vesti e corpi; il puzzo soffocante che esalava dalle capre, dai cadaveri e dagli escrementi sparsi; la sete, per cui di continuo avevano la bocca riarsa e invano mitigavano col mettere in bocca neve a pezzetti; il vedere che nessuno in tanti giorni era venuto in traccia loro, e il pensare che tutto ciò era ancor poco, e che ben altro patimento avrebbero sofferto prima di riavere la libertà perduta o di soccombere al peso di gravissimi mali: erano tutte cose che certo tormentavano loro la vita e le angosciavano”.
 
L’illustre dottor Somis, medico del re, invano cercherà di capire in che modo l’ossigeno fosse circolato a sufficienza, sotto metri di neve, da garantire la sopravvivenza a tutte. Un altro motivo di curiosità scientifica era il comportamento delle galline, capaci di distinguere il giorno dalla notte pur nel buio più totale: per due settimane, prima che anche l’ultima gallina morisse, il loro chiocciare aveva permesso alle sopravvissute di non perdere il conto delle giornate trascorse. Somis proverà a replicare l’evento rinchiudendo al buio per cinque giorni “otto galline e quattro pollastre”, ma senza risultato: gli animali, infatti, rimasero in silenzio. A permettere alle Rocchia di andare avanti furono soprattutto le due capre fortunatamente scampate al disastro e fornite di paglia in abbondanza. Una di loro, incinta, avrebbe partorito pochi giorni prima del miracoloso ritrovamento (il capretto venne subito ucciso, per non dover dividere il prezioso nutrimento): “Ogni qualvolta chiamavano questa capra - ricorderà nel suo resoconto il conte Bonaventura Ignazio Nicolis di Brandizzo, intendente del re - essa si avvicinava e leccava loro la faccia e le mani e forniva due libbre di latte, ragione per cui esse nutrono ancora un grande affetto per questa capra medesima”.
 
Il salvataggio delle tre sepolte vive è legato a un evento soprannaturale, raccontato dal fratello di Anna Maria, Antonio Bruno. L’uomo disse di aver sognato la notte prima del ritrovamento il volto pallido e sofferto di sua sorella: la poveretta si rivolgeva a lui annunciandogli che il Signore l’aveva tenuta in vita e pregava di venire al più presto a liberarla. La mattina del 25 aprile, Antonio raccontò al fratello Giuseppe cosa aveva visto in sogno e insieme i due Bruno partirono da Demonte, alla volta di Bergemoletto. Verso le dieci, complice il parziale disgelo, dopo aver praticato un foro con una pertica riuscirono a udire la fioca voce di Anna Maria. La quarantenne venne issata per prima, trascorse altre due ore di scavi, ma il sole di mezzogiorno la portò allo svenimento dopo quelle lunghe settimane di buio totale. Le donne vennero coperte da panni in volto e adagiate in casa di un vicino, Giovanni Arnaud: il digiuno prolungato, il freddo e l’umidità, la sete e la postura obbligata le avevano tanto rattrappite da impedir loro di camminare.
 
Le tre, soprattutto Anna Maria che era la più anziana, non si sarebbero mai riprese del tutto da quelle privazioni. L’estate successiva, tuttavia, erano abbastanza ristabilite da poter essere condotte insieme a Giuseppe Rocchia ai Bagni di Valdieri, già allora sede delle reali villeggiature dei Savoia, a cospetto del sovrano. Il re concesse loro un indennizzo sufficiente a permettergli di ricostruire una casupola, lontana cinquanta passi dalla loro vecchia casa. Vi andarono a vivere insieme alle due affezionate capre, ma dopo un altro anno, nell’autunno del ’56, i soldi erano finiti e la terra non era più in grado di offrire sostentamento. Giuseppe, Anna e Anna Maria iniziarono allora a vagabondare per il Piemonte, raccontando a chi incontravano nelle fiere, in cambio di un’offerta di cibo o di denaro, la loro incredibile storia. Tra quanti offrirono ospitalità a quella povera famiglia ci fu anche il dottor Somis, nella sua villa di Cavoretto. Il luminare ne approfittò per chiedere altri particolari su quanto era accaduto in quel sepolcro di neve. Il finale, sembra, fu comunque lieto: agli ultimi di marzo del ’57 i Rocchia fecero ritorno in paese e ripresero a lavorare, questa volta senza più essere costretti dalla natura o dalla povertà ad abbandonare casa.

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