CUNEO - La peste del 1630 a Cuneo: come la città affrontò l’epidemia raccontata da Manzoni

Il contagio costò la vita a circa metà degli abitanti. Ma quasi 400 anni fa si parlava già di autocertificazioni, quarantene e redditi di emergenza per i più poveri

Andrea Cascioli 08/06/2020 18:42

Pochi eventi nella storia sono legati alla loro successiva fortuna letteraria quanto l’epidemia di peste del 1630. Parliamo della cosiddetta ‘peste manzoniana’, quella che duecento anni più tardi avrebbe costituito il fulcro narrativo de I promessi sposi e della Storia della colonna infame.
 
Gli storici stimano in 1 milione e 100mila le morti attribuibili a quel flagello nell’Italia settentrionale. Il contagio si diffuse tra il 1629 e il 1633 e - pur restando più circoscritto rispetto alla grande epidemia del Trecento - impose un tributo molto alto alle aree colpite: Milano perse addirittura il 74% della sua popolazione, Torino circa 8mila dei 25mila abitanti di allora. Lo storico ottocentesco Luigi Cibrario ricorderà che intorno al 1630 “Acqui fu quasi distrutta; Alessandria contò 14mila morti; Aosta, Biella, Busca ebbero quasi tutte le case contagiate; a Carmagnola, non scamparono che 12 capifamiglia i quali fecero il voto di digiunare severamente il 7 dicembre di ogni anno in segno di ringraziamento per lo scampato pericolo. Chieri, che nelle pestilenze precedenti aveva già avuto 8 mila morti, seppellì altri 4500 chieresi; a Garessio, non rimasero che tre famiglie e, a Pinerolo, soccombettero al contagio tutti, nessuno escluso”.
 
Per quanto riguarda la città di Cuneo non esistono stime esatte circa l’ammontare delle vittime del morbo, sebbene alcune fonti le abbiano quantificate in una metà dei residenti. Nel saggio La peste a Cuneo (1630-1632), Marco Torriani riporta il numero di 500 decessi nell’arco di 19 mesi per la sola parrocchia di Santa Maria, su una popolazione di 1300 abitanti che coincideva grossomodo con il quartiere della città affacciato sullo Stura. Non tutti quelli riportati nei registri parrocchiali sono morti di peste, ma confrontando il dato con una mortalità media di circa 40 persone all’anno - e ipotizzando cifre simili per le altre due parrocchie allora esistenti, Sant’Ambrogio e il Duomo - si può comprendere perché la tragedia abbia segnato a lungo la vita cittadina, tanto che solo a fine secolo la popolazione tornerà ai livelli precedenti.
 
Nell’immaginario contemporaneo sono filtrati soprattutto gli aspetti più negativi della reazione a quegli avvenimenti, come la famigerata caccia agli untori. Beninteso, la superstizione popolare - ammantata di devozione religiosa e talora avallata dalle autorità - esisteva eccome. Si ha notizia ad esempio che il 5 ottobre 1631 a Sommariva del Bosco una sventurata donna conosciuta col soprannome di Paroda fu condannata al rogo come strega, verosimilmente perché ritenuta responsabile di aver diffuso il contagio. Nello stesso anno il frate Tiberio da Macerata illustra la nefanda attività degli untori adepti di Satana in tutto il Piemonte, affermando addirittura che “il mese passato nella valle di Grana il Demonio fece la rassegna Generale di tutti loro, e de loro adherenti, e fu sì grande il numero che superava di gran lunga l’Armata Imperiale, quando venne all’Impresa di Mantova”. Il riferimento è alla guerra di successione di Mantova che rappresentò il primo vettore di diffusione del contagio, attraverso il passaggio delle armate. Ma ancora nel 1703 il sindaco di Cuneo, Baldassarre Lingua, metterà in guardia dalle “molte ontioni a varie case di questa città d’un color giallo e viscose, il che rende molta apprensione a cittadini”.
 
Non si deve tuttavia credere che linciaggi e processi inquisitoriali fossero le sole risposte che gli uomini e le donne del Seicento misero in campo nel disperato tentativo di allontanare da sé paure e lutti. Con i mezzi e le conoscenze dell’epoca, le autorità fecero quanto era possibile per arginare il contagio, ricorrendo anche a quelle limitazioni che a causa del coronavirus siamo tornati a sperimentare ai nostri giorni: a Cuneo si impone dal luglio 1629 un rigoroso controllo su persone e merci che giungono attraverso i passi alpini di Limone, Entracque e Demonte. Il Piemonte è anche il primo Stato europeo a dotarsi delle bollette di sanità, che possiamo ritenere una pionieristica ‘autocertificazione’ attraverso la quale si dichiarava, sotto giuramento, di non essere stati da un certo numero di giorni in “loco morboso”.
 
Con il passare dei mesi si affiancano alle prime restrizioni altre misure più drastiche. Il 22 ottobre 1629 la Congregazione di Sanità, dopo aver fatto murare tutte le porte della città escluse quella del Borgo e quella di Caranta (che sono però vigilate e chiuse con cancelli di ferro), ordina di approntare “luoghi securi in questa città et fuori per le robbe di quarantena che vengono da luoghi prohibiti o vicini ad essi”, a spese dei proprietari. In novembre viene annullata la fiera che si sarebbe dovuta svolgere l’11 e si stabilisce la “prohibitione ai mercanti di introdur robbe né commerciare in maniera alcuna” o di offrire ospitalità a stranieri. Già nel gennaio del 1630 però le preoccupazioni dei mesi precedenti sembrano scomparse: i libri comunali non riportano altri accenni al pericolo dell’epidemia, sebbene nei registri delle parrocchie fin dai mesi di maggio, giugno e luglio il numero di decessi tocchi vette mai raggiunte in precedenza.
 
A scuotere la comunità sarà di lì a poco la notizia dell’improvvisa morte del duca Carlo Emanuele, avvenuta il 26 luglio a Savigliano: le “febbri e dolori” cui fa cenno il figlio ed erede Vittorio Amedeo lasciano pochi dubbi circa la probabile causa del decesso. Con agosto la peste è ormai “regnante in questa città e finaggio”, ma le autorità lo ammettono solo verso la fine del mese: “A Cuneo non sanno come fare a seppellire tanti morti” scrivono i padri cappuccini in una lettera. La comunità cerca comunque di mettersi al riparo innalzando il numero dei ‘conservatori di sanità’ da due a dodici e provvedendo alle “purgationi”, cioè l’insieme di ‘sanificazioni’ (rimozione di rifiuti, “abbruciamenti” di oggetti appartenenti a infetti e altro) che si riteneva potessero arginare il contagio. Al 24 settembre 1630 data il primo accenno ufficiale all’esistenza di un lazzaretto: le “barrache” per l’isolamento degli ammalati si trovavano presso la cappella di San Lazzaro sullo Stura, oggi demolita, in prossimità del cimitero. Come tutte le epidemie, scrive Torriani, la peste “fu occasione di rapidi arricchimenti per la classe medica, che però pagò un tributo di vite umane secondo solo a quello dei religiosi. E l’opera di questi professionisti, assieme ai ‘paramedici’ del tempo, i ‘cirogici’ e i ‘barbieri netti’ o ‘brutti’, [...] non si può certamente dire importante anche se valide, almeno nelle intenzioni, erano diverse misure profilattiche”.
 
Se sui medici non si può fare troppo affidamento, nemmeno la popolazione sembra attenersi alle rigide norme imposte: le cronache riportano i casi di ammalati non gravi che sfuggendo ai controlli continuano a svolgere i loro affari - come la mietitura o la vendemmia - con conseguenze immaginabili. Perfino il marchese Forni, maestro di campo a Cuneo per conto del duca di Savoia, denuncia al Consiglio comunale la “tacita tolerantia” delle trasgressioni da parte di medici, cantonieri e monatti proni alla corruzione. D’altro canto le conseguenze sociali dell’epidemia - aggravate dalle pesanti spese per il mantenimento delle truppe - sono tali da suggerire agli amministratori di sospendere le imposte del taglione e la tassa sulla macina fino al 29 novembre 1631, data all’altezza della quale si ritiene “per grattia del Signore cessato il mal contaggioso”. A beneficio dei più poveri, colpiti dal blocco dei commerci e talvolta ridotti perfino a fingersi malati pur di ottenere vitto e alloggio nel lazzaretto, il Consiglio ordina inoltre “doversi distribuire a qualsivogli miserabile doi libre di pane di segala e una mesta di vino il giorno”.
 
Insomma, tra autocertificazioni, quarantene e crisi economica più di un aspetto di queste vicende potrà sembrare familiare all’uomo del XXI secolo. Perfino nell’ambito che può apparire più datato, quello della devozione religiosa: è interessante notare, infatti, che nell’indire con voto perpetuo l’organizzazione di una processione in onore di San Michele nel giorno della sua festività, le autorità si preoccupano in quel 1630 di limitare la partecipazione alla presenza dei religiosi e dei notabili, mentre per il popolo si consigliava di “ingenocchiarsi in casa”. Nemmeno la limitazione delle cerimonie liturgiche in tempo di epidemia, dunque, è questione che abbia riguardato soltanto il nostro presente.

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