CUNEO - Le storie delle masche, quelle tradizioni piemontesi da non dimenticare

Donne vendicative, misteriose, capaci di causare morte, rovinare raccolti e portare sfortuna. Strani personaggi a metà tra streghe e vecchiette innocue popolano le storie contadine delle valli

Micol Maccario 24/08/2023 08:13

Molto anziane, non di bell’aspetto, spesso vedove, zoppe e rugose. Così erano descritte le masche, anche se in realtà nei racconti dei nonni e dei bisnonni appaiono molte volte sotto forme diverse. Casalinghe, vecchiette, signore innocue capaci di trasformarsi in animali, di vendicare un torto, di portare disgrazie.
 
Solo un elemento ricorrente: le masche nella tradizione sono quasi sempre donne (nei rari casi in cui sono raccontate come uomini prendono il nome di masconi).
Da un certo punto di vista potrebbero essere paragonate alle streghe. Alla fine, entrambe ebbero come destino il rogo. Non si sa il numero preciso di quante morirono dopo essere state accusate di “mascheria”. Sicuramente però furono molte, in particolare durante il periodo dell’Inquisizione, nelle zone di Rivara, Pollenzo, della val Sesia e Soana. Erano i capri espiatori della società. Se moriva un neonato, il raccolto andava perduto, una donna non riusciva ad avere figli, oggetti da lavoro sparivano, era sempre colpa delle masche, invidiose e vendicative. 
 
Erano donne con una profonda conoscenza del mondo naturale e avevano la capacità di creare intrugli con fiori ed erbe. Fondamentale era il “Libro del Comando”, che conteneva formule magiche e incantesimi malvagi in grado di rafforzare i poteri, di leggere il passato e predire il futuro. Le masche avevano tanti poteri.
 
Qualcuno sostiene che potessero volare, altri che si sapessero trasformare in serpenti, cani, gatti, mosche, galline o in vegetali, o che dalle loro volontà dipendessero i temporali. Non erano però esseri immortali, ma prima di morire dovevano passare i poteri a qualcuna (soprattutto figlie, nipoti o amiche) toccandola o tramite un determinato oggetto.
 
Secondo molti operavano di notte. Ma nella letteratura sono numerosi anche i racconti che si svolgono durante le ore del giorno. “Un giorno incontro una donna forestiera, una bella donna, piccolina, ben vestita, con un fazzoletto nero legato intorno al collo […] Sta donna accarezza il bambino con due dita, poi mi dice ‘Quanti mesi ha?’ Non bisogna mai dire l’età, porta male. Io stupida le rispondo: ‘Ha quattro mesi’. ‘Oh, è troppo sviluppato per l’età. Vedrà madamin che non lo alleva’. Otto giorni dopo è morto […] Gli sono usciti tutti i denti sopra e sotto, usciti completi, mentre prima aveva niente. Ho subito pensato a quella donna, che me lo aveva malefisià, che me lo aveva maledetto il bambino”. 
 
Questa è una delle testimonianze presenti nel libro “L’anello forte. La donna: storie di vita contadina”, di Nuto Revelli pubblicato nel 1985. Nelle righe compare un’ennesima rappresentazione della masca: una bella donna e non la solita signora zoppa e gobba. Sempre nel volume di Revelli si fa riferimento alla storia di Miciulina. “L’avevano messa su un mucchio di fascine, poi hanno dato fuoco e lei bruciava, e loro gridavano: ‘Miciulina tacte, tacte, salvte’, però io non ho visto”, scrive l’autore riportando le parole dell’intervistata Lucia Rosso.                          
 
Secondo i racconti Miciulina (o Micilina o, ancora, Michelina) era una donna con molte rughe, pochi capelli, senza denti, piccola, un po’ deforme e viveva a Pocapaglia. La leggenda narra che la donna avesse toccato la schiena di una bambina, causandole la crescita di una gobba il giorno seguente. E che un ragazzo, vedendo Miciulina, avesse perso l’equilibrio e, rialzandosi, avrebbe notato di avere un piede in avanti e uno al contrario. Iniziò a diffondersi la voce che la donna fosse una masca. Fu condannata al rogo, bruciò nel luogo che oggi prende il nome di Bric d’la masca. 
 
In tutto il Piemonte erano praticati accorgimenti per tutelarsi dalle cattiverie delle masche. C’era chi credeva che il sacerdote durante la messa potesse individuare la masca, chi spargeva sale, chi faceva attenzione a non stendere gli indumenti dei figli perché le masche potevano far loro male attraverso gli abiti facendo crescere il bambino deforme, o ancora chi circondava la propria abitazione con un filo di canapa filato da una ragazza giovane che non aveva mai usato un fuso prima di allora. Nella letteratura esistono anche le masche buone, ma sono molto meno presenti. 
 
Non si sa di preciso quando si iniziò a parlare delle masche. La prima comparsa della parola “masca” risale all’Editto di Rotari del 643 d.C., dove si legge “strigam, quam dicunt Mascam”, cioè “strega, che chiamano la masca”. L’etimologia è incerta, ma la parola è diffusa in gran parte del Piemonte: nelle valli cuneesi, valli di Lanzo, nel canavese, alessandrino, provincia di Biella, Langhe e Roero. I racconti sono noti principalmente grazie alla pazienza dei nonni e dei bisnonni che negli anni hanno continuato a tramandare queste storie che, a loro volta, avevano sentito dai genitori. A noi il compito di non interrompere questa tradizione.
 

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