CUNEO - Novant’anni fa la tragedia del ponte nuovo a Cuneo che costò la vita a nove operai

Quello del 5 giugno 1930 resta tuttora il più grave incidente sul lavoro nella Granda: una lapide sul viadotto Soleri ricorda i nomi degli 11 uomini morti per edificarlo

Andrea Cascioli 05/06/2020 12:39

Erano all’incirca le quattro del pomeriggio del 5 giugno 1930, un giovedì. A risvegliare la città di Cuneo dal suo torpore fu un enorme schianto, all’altezza della decima arcata del ponte in costruzione sullo Stura.
 
Persero la vita nove operai che stavano lavorando all’edificazione dell’attuale viadotto Soleri. Venivano dalla Granda solo alcuni di loro, i confreriesi Giovanni Ravaronco (23 anni) e Stefano Cavallera (24) e il cervaschese Giovanni Bramardi (34 anni), insieme a Giuseppe Bonelli (31 anni) di Rocca de Baldi, che dopo essere stato recuperato in gravi condizioni morì in ospedale il mattino dopo. Gli altri, immigrati dell’epoca, erano giunti perlopiù dalla provincia di Treviso in cerca di lavoro: Luigi Galbiati (35 anni), Ferruccio Marotta (25 anni), Angelo Panizzolo (30 anni), Filippo Sciamanna (44 anni), Giuseppe Pierdona (30 anni). Oggi una lapide murata sul basamento sinistro del ponte stradale, dal lato dell’altipiano, li ricorda come caduti sul lavoro insieme a Mario Clerici e Michele Brignone, vittime di incidenti nel cantiere in altre due occasioni.
 
I pochi testimoni che poterono assistere alla scena parlarono di un enorme ammasso precipitato dalla sommità dei pilastri, a trenta metri di altezza. In quel momento una decina di operai stavano lavorando per sistemare una centina che sarebbe dovuta servire come sostegno per le arcate in muratura: l’armatura era quasi ultimata e quella sarebbe stata l’ultima opera di rinforzo realizzata in quel modo. Per le successive arcate, infatti, erano già pronti nuovi sistemi di sostegno in legno. Ma l’improvviso crollo dell’armatura, attribuito alla rottura di un argano, trascinò con sé i muratori in cima all’arcata prima che ciò potesse accadere.
 
L’edizione de La Stampa del giorno successivo riportò i particolari della tragedia: “L’opera di salvataggio si presentava quanto mai ardua, poiché i disgraziati operai, pochi dei quali erano rimasti in vita, venivano scorti attraverso il reticolato dei rottami in posizioni critiche e drammatiche. La morte della maggior parte dei disgraziati deve essere stata orribile. Infatti sono precipitate prima le centine che sostenevano l’armatura in legno, e battendo contro il suolo avevano compiuto paurosi rimbalzi, e nel cadere nuovamente a terra avevano attanagliato tra di loro i corpi dei disgraziati carpentieri che l’avevano seguite nella caduta”. Le operazioni di soccorso furono avviate dai pompieri e dai soldati del primo reggimento artiglieria di montagna e del 33esimo reggimento fanteria, coadiuvati dai carabinieri e dai militi della Mvsn. Tutte le autorità, in testa il podestà Imberti e il segretario del fascio Bonino, si recarono sul posto insieme a una gran folla di cittadini sgomenti.
 
Le descrizioni del ritrovamento dei corpi lasciano inorriditi ancora oggi: “I volenterosi soldati ed i bravi pompieri riuscivano, dopo lunghi sforzi, a rimuovere qualcuna delle pesanti armature e si potevano così estrarre per primi due operai, i cui cadaveri, orribilmente deformati, venivano trasportati a braccia e deposti sulle barelle per essere portati all’ospedale. Le due salme erano ridotte ad un informe ammasso di carne: le braccia e le gambe, spezzate, penzolavano orribilmente dal resto del corpo. Altri corpi, tutti irriconoscibili, venivano frattanto rimossi dalle macerie. Il cadavere di un terzo operaio era estratto e si presentava agli occhi dei presenti orrendamente mutilato. Il disgraziato aveva riportato la decapitazione e per quante ricerche siano state fatte finora, il capo dell’infelice non è più stato ritrovato. Le centine che apparivano, nonostante il loro spessore, completamente deformate e contorte, erano cosparse in più punti di larghe macchie di sangue. Altri corpi si intravvedevano. La scena assumeva un aspetto sinistro”.
 
Il cronista riporta scene strazianti anche in ospedale, dove gli operai “assistono come automi alla sfilata dei cadaveri dei loro compagni di lavoro”. In un angolo, due uomini col capo reclinato piangono ininterrottamente: “Sono due operai che hanno avuto un loro fratello morto nella catastrofe”. C’è però fra tanta disperazione un’incredibile storia a lieto fine: è quella di tale Lorenzo Giuseppe Ghibaudo di Cervasca, che al momento del crollo si trovava proprio sotto l’arcata. L’uomo racconta di essersi gettato in una bealera subito dopo aver udito lo schianto: “Fortuna volle che una centina precipitasse in senso trasversale al corso d’acqua, e quindi lo proteggesse dal susseguente precipitare del materiale”.
 
La storia travagliata del ‘ponte nuovo’ era incominciata ben diciassette anni prima, il 22 settembre 1913, con la posa della prima pietra alla presenza del re Vittorio Emanuele III e del presidente del Consiglio Giolitti. Sarebbero occorsi ancora sette anni per vederne il completamento: oltre alla disgrazia, contribuiranno a posticiparne la realizzazione vari problemi tecnici, ritardi nell’installazione degli impianti e soprattutto il dirottamento dei fondi in vista della guerra d’Etiopia. Il 28 ottobre 1933 si apre infine il tracciato stradale, ma bisogna ancora attendere quattro anni, fino al 7 novembre 1937, per vedere inaugurata anche la parte ferroviaria che collega i binari alla nuova stazione di Cuneo.
 
L’imponente opera formata da 34 archi di 25 metri ciascuno, con un’altezza massima di 47,5 metri, diventerà anche un simbolo di affermazione politica per il regime fascista che sostituisce i quattro lampioni in ferro battuto ai lati degli imbocchi stradali con fasci littori in granito rosa di Baveno, decorati in bronzo, ciascuno poggiante su un basamento con la scritta “DUX”. I fasci e le iscrizioni vengono rimossi il 25 luglio 1943, alla caduta del fascismo, ma le traversie del ponte non sono finite: alle 4 di mattina del 28 aprile 1945, i tedeschi in ritirata minano due archi del settore ‘promiscuo’ tra strada e ferrovia, provocando il crollo di tre arcate e interrompendo per tre anni i collegamenti sia stradali che ferroviari. I lavori di ripristino, cominciati nell’agosto 1946, si concludono il 10 gennaio 1948: il ‘grande viadotto sulla Stura’ è ora intitolato all’ex sindaco di Cuneo e ministro liberale Marcello Soleri.

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