CUNEO - Quarant’anni fa la strage del cinema Statuto: anche la Granda pianse i suoi morti nel rogo

Sessantaquattro persone perirono in uno degli eventi più tragici del dopoguerra. Le lacune nella sicurezza trasformarono la sala in una camera a gas

Andrea Cascioli 13/02/2023 18:00

Era una domenica il 13 febbraio del 1983: Torino era sotto una fitta nevicata. All’epoca in città esistevano ancora più di ottanta cinema, con varie sale nello stesso quartiere, alcune addirittura nella stessa strada. Molti erano piccoli locali, dove si potevano vedere film in seconda o terza visione per poche lire. Si spendeva poco e poco si badava alla sicurezza: ma sarebbe cambiato tutto, presto.
 
Quel pomeriggio il cinema Statuto di via Cibrario 16-18 proiettava “La capra”, una commedia brillante con Gerard Depardieu. In una sala con una capienza di 1200 posti, appena un centinaio di persone: la pellicola infatti era alla tredicesima settimana di programmazione e lo Statuto era appunto un cinema di “seconda visione”. Anche la neve, probabilmente, aveva indotto più di qualcuno a rimanere nel tepore casalingo. Tra gli spettatori c’erano famiglie con bambini e nonni, giovani coppie di fidanzati, studenti. C’era una ragazza americana di 27 anni, venuta dalla California per studiare arte: si chiamava Bonnie Clair Calvert. Un giovane di vent’anni appena, Giacomo Fracchia, era stato tra i corazzieri del Quirinale e quel pomeriggio era lì insieme alla fidanzata, Annalisa Fantoni. Nessuno di loro sarebbe mai uscito da quella sala.
 
Venti minuti dopo l’inizio della proiezione, intorno alle 18,15, un’improvvisa fiammata incendiò una tenda che separava il corridoio d’accesso di destra dalla platea. Un tonfo sordo, simile all’accensione di una stufa, secondo i sopravvissuti. Le indagini dimostreranno che a innescare la peggior tragedia vissuta a Torino nel dopoguerra era stato un cortocircuito: nessun piromane, come si era sospettato in un primo tempo, dato che nel giugno precedente tre cinema in città erano stati colpiti da azioni simili. Emergeranno però anche le responsabilità di chi avrebbe dovuto vigilare sulla sicurezza del pubblico. Quando il fuoco ostruisce ormai quasi del tutto le uscite posteriori, pochi spettatori sono riusciti a fendere le fiamme e fuggire. Altri, terrorizzati, si lanciano verso le sei uscite laterali, solo per scoprire che erano state chiuse: il gestore intendeva così contrastare i frequenti ingressi dei “portoghesi”. Dall’esterno arrivano urla e richieste d’aiuto, mentre gli spettatori che sono riusciti a raggiungere l’atrio della biglietteria implorano il proprietario del cinema, Raimondo Capella, di fare qualcosa. Lui cerca di calmare gli animi, teme un’ondata di panico.
 
Il paradosso è che in quel cinema, secondo la normativa di allora, tutto era stato fatto “a regola d’arte”. Solo il mese prima i locali erano stati ristrutturati e sottoposti alle verifiche della commissione di controllo: “Non c'era una sola lampadina fulminata, niente fuori posto” dirà Capella al processo, ricordando che gli ispettori si erano complimentati e non gli avevano fatto “neanche una prescrizione”. In realtà a provocare la strage concorrono diversi errori: quando le fiamme sciolgono i cavi elettrici l’illuminazione principale viene a mancare, ma nessuno si preoccupa di accendere le luci di sicurezza, tramite l’interruttore ausiliario dietro alla cassa. Nel tentativo di contenere il panico la proiezione non viene nemmeno interrotta. Così per diversi minuti chi è in galleria non percepisce il pericolo, fin quando il fumo la invade. Molte persone si danno a una fuga disperata verso il varco di sinistra che dà sull’atrio, ma nessuno lo raggiunge: in quel punto si conteranno quasi quaranta morti. Altri si accalcano verso una porta di destra che conduce però alle toilette, un vicolo cieco. Alcuni spettatori vengono trovati asfissiati sulle poltrone, dove erano stati sorpresi prima di poter azzardare qualsiasi reazione. In meno di un minuto, infatti, la galleria si è trasformata in una sorta di camera a gas: colpa delle esalazioni tossiche di acido cianidrico, prodotte dalla combustione del poliuretano espanso delle poltrone e dei rivestimenti plastici delle lampade e dei tendaggi. La certificazione si limitava ad accertare le proprietà ignifughe dei rivestimenti, ma non menzionava i rischi connessi alle esalazioni tossiche. Sull’etichetta solo la dicitura “tessuto ignifugo autorizzato dallo Stato” e la generica avvertenza “produce fumo”: nulla poteva far capire, sosterrà Capella, che quella fibra avrebbe sprigionato fumi tossici se incendiata.
 
I soccorritori che entrarono per primi in quel luogo di orrore vi trovarono sessantaquattro cadaveri, 31 di maschi adulti e altrettanti di femmine, più un bambino e una bambina. La vittima più giovane è una bimba di sette anni, Giuseppina Vario: veniva da Moncalieri con il papà Giovanni e la mamma Lorena Artioli, entrambi ventisettenni, accompagnati dalla zia Loretta Artioli con il fidanzato Angelo Vago. Tutti moriranno nel rogo. La tragedia scuote l’Italia intera e anche la Granda piange le sue vittime: Piera Rivarossa di Polonghera, 30 anni, quel giorno era al cinema con il marito Luigi Stringani, originario di Torino. Erano andati a trovare la suocera, morta insieme a loro. Lorenzo Racca, 35enne originario di Sommariva del Bosco, dipendente della Michelin a Torino, era anch’egli lì con sua moglie, Palmari Galvani. Una tragedia familiare è pure quella di Roberto Pepino, farmacista trentunenne di Cuneo, morto insieme alla moglie 25enne Maria Luisa Chierici: quel 13 febbraio era il loro primo anniversario di nozze, avevano deciso di festeggiarlo al cinema. Maria Luisa, per gli amici Isa, aspettava un bambino.
 
Le conseguenze di quell’immane disastro porteranno a un’ondata di ispezioni e chiusure nei mesi successivi: dieci giorni dopo a Cuneo viene chiuso il cinema Monviso, ancora privo di porte tagliafuoco. Il Corso, il Nazionale e il Fiamma scampano alla serrata ma patiscono per alcuni mesi le conseguenze della chiusura di molti cinema torinesi, perché le case di distribuzione fanno giungere meno film in Piemonte. Problemi di poco conto, tuttavia, rispetto a quanto accaduto a Torino. Al termine del processo sei degli undici imputati verranno condannati per omicidio colposo plurimo. Al proprietario dello Statuto una pena di otto anni in primo grado, ridotti a due in appello con sentenza definitiva, più un risarcimento di 3 miliardi ai familiari delle vittime che gli costerà il sequestro e la vendita dei beni. Il cinema di via Cibrario non ha mai più riaperto i battenti: l’edificio annerito è stato abbattuto nel 1996 e trasformato in un condominio. Poco lontano una lapide commemorativa, collocata in una piccola aiuola, ricorda le 64 vittime.

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