CUNEO - Statue contestate: anche Barbaroux rischiò di essere sfrattato dal salotto di Cuneo

Il monumento al giurista di Carlo Alberto troneggia in piazza dal 1879. Ma in un paio d’occasioni si pensò di sostituirlo, prima con Leutrum e poi con Duccio Galimberti

Andrea Cascioli 16/06/2020 20:41

Un vero scontro politico a riguardo non c’è mai stato, né tantomeno - per fortuna - un tentativo di deturparla o abbatterla come sta succedendo in questi giorni a molti monumenti dedicati a personalità illustri e meno illustri. Eppure anche la statua di Giuseppe Barbaroux che da quasi 141 anni troneggia al centro del salotto buono di Cuneo ha dovuto affrontare qualche traversia.
 
Ad essere messa in discussione non è l’eredità storica del personaggio, figura eminente di giurista e uomo di Stato della prima metà dell’Ottocento al quale si devono - tra l’altro - la fondamentale riforma del codice civile sabaudo sotto Carlo Alberto e l’istituzione della diocesi di Cuneo. C’è chi ha suggerito però che altri cuneesi illustri meritassero più di lui quella posizione. In un articolo del 2006 per la rivista Cuneo Provincia Granda, lo storico Giovanni Cerutti annotava un paio di tentativi di ‘sloggiare’ Barbaroux dal suo piedistallo: uno risalirebbe addirittura al 1927, in piena era fascista. All’epoca si era pensato, pare, di erigere nella piazza centrale un monumento al barone tedesco Federico Guglielmo Leutrum, l’eroe dell’assedio del 1744. Non se ne fece nulla ma dodici anni più tardi il fascismo locale utilizzò comunque la figura del condottiero settecentesco, da sempre popolarissima in città, per tessere rapporti più stretti con la Germania nel frattempo divenuta nazista: nel corso di una visita a Monaco di Baviera, una delegazione guidata dal podestà di Cuneo portò in dono al borgomastro proprio un busto di Leutrum.
 
Il più recente dibattito sulla collocazione della statua risale invece al Consiglio comunale del 28 ottobre 2002, durante il quale si avanzò la proposta di sostituirlo con un monumento a Duccio Galimberti. Al comandante partigiano del resto è dedicata dal 3 giugno 1945 la piazza prima intitolata a Vittorio Emanuele II: questa ‘staffetta’ avrebbe quindi sanato il curioso sdoppiamento - sempre esistito a Cuneo - tra il personaggio che dà il nome alla piazza e quello che vi è celebrato. A prezzo, però, di relegare il povero Barbaroux all’angusto cortile interno del palazzo di giustizia. Contro questa ipotesi Cerutti si schierava riprendendo un articolo pubblicato nell’aprile dello stesso 2006 su La Stampa a firma di Gianni Vercellotti. Le parole del compianto avvocato e presidente dell’Atl cuneese possono sembrare oggi più attuali di quanto non lo fossero quattordici anni fa: “È assurdo, per non dire stupido, cambiare i monumenti quando cambiano le situazioni. Essi sono nati in un certo momento, quando il giudizio storico delle persone e sui fatti era quello di quel periodo, ed hanno il compito di rievocare persone e fatti di un processo che poi può modificarsi, ma non per questo cancella il passaggio”.
 
E il passaggio su questa terra di Giuseppe Barbaroux di certo non è tra quelli che meritino l’oblio. Nato il 6 dicembre 1772 a Cuneo e battezzato il giorno stesso nella chiesa di Santa Maria, Barbaroux era figlio di un commerciante francese di velluti di nome Jean Pierre, venuto a stabilirsi in città da Colmars in Provenza e qui sposatosi in seconde nozze con Giovanna Maria Giordana, figlia di uno stimato medico. A Cuneo il piccolo Giuseppe cresce fino al 1783, frequentando la scuola bassa comunale e poi la scuola regia. La sua precoce bravura negli studi è forse tra le ragioni che inducono la famiglia a trasferirsi a Torino, dove il rampollo frequenta la facoltà universitaria di diritto e si laurea con una tesi sull’usura: quando ciò accade, il 5 maggio 1790, la rivoluzione francese è scoppiata da meno di un anno e Barbaroux non ha ancora compiuto i diciott’anni. Il celebre avvocato Filippo Tonso, che ha assistito alla discussione di quell’enfant prodige, lo prende a lavorare nel suo studio, di cui Barbaroux diverrà titolare dopo la morte del suo patrono nel 1802.
 
Durante la dominazione napoleonica il giovane si afferma come principe del foro e sposa una nobildonna torinese, Sofia Teresa dei conti Scotti-Boschis, dalla quale avrà sette figli. Sebbene le sue simpatie personali non debbano essere troppo distanti dall’amministrazione napoleonica, la carriera pubblica del futuro riformatore incomincia solo con la restaurazione: nel 1814 Barbaroux rifiuta la prestigiosa carica di primo ufficiale offertagli dal ministro degli interni, il reazionario conte Vidua, e chiede invece di essere nominato avvocato generale presso il neo costituito Senato di Genova, dove coglie i primi successi politici uniformando le leggi dell’ex repubblica a quelle del Regno di Sardegna alla quale ora è annessa.
 
L’attività dell’avvocato cuneese si rivela provvidenziale nel guadagnare ai Savoia la fedeltà dei genovesi, maldisposti verso la nuova dominazione e influenzati dalle idee moderne. Per l’ottimo lavoro svolto Vittorio Emanuele I lo nomina conte e lo manda a Roma come inviato straordinario e ministro plenipotenziario presso la Santa Sede. Nei successivi otto anni all’ombra dei sacri palazzi Barbaroux mette in mostra straordinarie doti di diplomatico: dal papa Pio VII e dal suo abile segretario di Stato, il cardinale Consalvi, ottiene il concordato tra i due Stati e l’accordo per la limitazione delle immunità personali del clero. È sempre lui, peraltro, a scongiurare il pericolo rappresentato dalla ‘lega postale austro-italiana’ promossa da Metternich: il cancelliere austriaco aveva infatti messo a punto un sistema poliziesco teso a individuare i componenti dei movimenti insurrezionali, che sotto le mentite spoglie di un progetto commerciale mirava in realtà ad acquisire il controllo del servizio postale degli Stati italiani con un meccanismo analogo alle odierne intercettazioni.
 
Ma è la stessa città di Cuneo a beneficiare dell’incarico diplomatico del suo illustre ambasciatore quando con la bolla Beati Petri Apostolorum Principis il pontefice proclama il 17 luglio 1817 la sospirata elevazione del capoluogo a sede episcopale. Nel 1824 Barbaroux, inviso agli ambienti più conservatori del papato, chiede di rientrare a Torino dove continua il suo cursus honorum sia sotto il reazionario Carlo Felice che con il tentennante riformista Carlo Alberto: è quest’ultimo a volerlo nel 1832 come suo ministro della giustizia e degli affari ecclesiastici. In tale veste gli è affidato l’improbo compito di portare avanti la riforma del codice civile mettendo ordine al groviglio di ordinamenti feudali allora esistenti. Pur inviso al conservatore ministro dell’Interno Della Scarena e a tutti gli altri membri del gabinetto, criticato dai progressisti che vorrebbero maggiori concessioni e soggetto all’atteggiamento ondivago del sovrano, Barbaroux riesce a portare a termine l’impresa fino alla solenne promulgazione il 20 giugno 1837.
 
Il nuovo codice raccoglie il plauso dei giuristi europei pur dispiacendo all’aristocrazia locale, alla Chiesa e a buona parte della magistratura. Tra le innovazioni più significative ci sono il riconoscimento del diritto d’autore, l’introduzione del principio di pubblicità delle ipoteche e le norme a tutela della proprietà e dell’iniziativa privata. La pena di morte, così come la condanna ai lavori forzati, viene ridimensionata e si impone che per i reati qualificati come crimini anche gli ecclesiastici vengano giudicati dal tribunale laico. Il giurista difende il principio dell’emancipazione legale dei figli e i diritti della donna, che sebbene non equiparati a quelli dell’uomo sono ora più tutelati. A deluderlo è invece il rifiuto del re di abolire il maggiorasco, retaggio feudale che impone vincoli nella successione a vantaggio del solo figlio primogenito: lo scontro con Carlo Alberto su questo punto aggrava lo stato di profonda depressione in cui l’hanno indotto gli innumerevoli attacchi subiti. A dargli il colpo finale, due anni dopo le dimissioni da guardasigilli, è la morte nel 1842 dell’adorata figlia minore Romana, vittima della tisi a soli 17 anni. La mattina dell’11 maggio 1843 il conte Barbaroux sale fino all’ultimo piano del ministero di giustizia in via Madonnetta (l’attuale via Barbaroux a Torino) e si getta nel vuoto. Rimpianto dall’addolorato Carlo Alberto e dai contemporanei che in vita non gli erano stati troppo riconoscenti, viene sepolto nel cimitero di Torino.
 
La sua città natale lo ricorderà con il monumento che ancora oggi vediamo, opera dello scultore Giuseppe Dini, inaugurato il 10 agosto 1879 nella piazza che dal 1860 era stata intitolata a Vittorio Emanuele II. La statua alta circa 3 metri è realizzata in marmo di Roccavione, mentre il basamento di 8 metri è in pietra grigia del Malanaggio con un piedistallo in granito rosso di Baveno. Qui è riportata l’iscrizione dettata dall’allora preside del liceo cittadino, Felice Daneo: “A Giuseppe Barbaroux, giureconsulto, statista, rivendicatore della civile equalità nella riforma delle leggi fatta dal re Carlo Alberto, principio del rinnovamento italiano. I concittadini. MDCCCLXXIX (1879)”.

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