FOSSANO - Pietro Balocco, l’assassino che visse due volte

Artefice di uno dei più efferati delitti del primo Novecento, riuscì perfino a farsi scagionare, ma...

L'articolo de "La Stampa" che dava notizia della condanna di Balocco

Andrea Cascioli 09/04/2022 09:30

È la mattina del 17 febbraio 1923, un venerdì. Attorno al palazzo di giustizia di Cuneo si è radunata una folla impaziente. Si attende l’arrivo di un detenuto che compare poco prima delle 9, scortato da una decina di carabinieri. La sua figura, scrive il cronista de La Stampa, appare “alta e slanciata” tra le severe uniformi dei militi. Ma l’uomo che il pubblico vede nella gabbia degli imputati, in Corte d’Assise, delude le aspettative: è “di aspetto normalissimo” e ha un volto anonimo, impassibile. Eppure è lui, Pietro Balocco: lo squartatore di via Maria Vittoria, il protagonista di uno dei più efferati crimini che la cronaca nera piemontese ricordi.
 
Bisogna tornare a un mattino di quasi cinque anni prima, il 14 marzo 1918. Siamo nel cuore di Torino, di fronte alla Gran Madre. Sotto una spalletta del ponte sul Po, un gruppo di operai di passaggio vede una scena spaventosa: il troncone di una gamba umana è in bilico su un pilastro, mentre sul parapetto poggia un sacco vuoto, intriso di sangue. Si diffonde il terrore di un maniaco e la polizia scandaglia senza risultato l’area circostante. Quasi nello stesso momento, in un signorile alloggio di via Maria Vittoria 19, la contessa Bertini Bianchi suona alla porta del suo inquilino del primo piano. È il ragionier Anselmini, un signore elegante e dai modi distinti. Dice alla padrona di essere in bagno e lei si ripresenta poco dopo, insieme alla portinaia che l’aveva avvisata di una stranezza: il giorno prima, racconta, aveva notato il ragioniere salire in casa accompagnato da un giovane prete, ma poi non aveva visto ridiscendere l’ospite. Le due donne chiedono all’inquilino di controllare che nell’alloggio sia tutto in ordine e ispezionano anche il bagno. Nella vasca notano una macchia scura: è vino, assicura Anselmini, spiegando che il giorno prima un amico ha aperto una bottiglia e macchiato il tappeto della sala da pranzo. Ma la portinaia ha già sollevato un lembo di stoffa e ritrae la mano inorridita: “È sangue!”. Prima che le due si riprendano dallo shock, il ragioniere fugge dall’appartamento e fa perdere le sue tracce. In una cesta i poliziotti troveranno un abito talare, lordato di sangue, alcuni documenti, due coltelli e due sacchi. I poveri resti smembrati, si scopre, appartengono a don Guglielmo Gnavi, da pochi mesi segretario della Cassa rurale di Caluso. Nel paese canavesano vive anche la mamma che l’aveva accompagnato in treno a Torino, il giorno 13.
 
Oltre a diecimila lire da versare per conto della Cassa rurale, don Gnavi aveva con sé una forte somma di denaro - ben 317mila lire - che avrebbe lasciato in custodia a un amico, arrivato a Torino. In tasca aveva tenuto circa 30mila lire, tra contanti e buoni del Tesoro. A inchiodare l’ambiguo ragioniere è anche la testimonianza di un compaesano del prelato, l’ingegner Prandi, che dopo aver viaggiato con lui in treno lo aveva incontrato di nuovo in via Maria Vittoria, subito prima del fatale appuntamento. Anselmini, suo socio in affari, avrebbe dovuto parlargli di un certo commercio di olio e legname. Si trattava in realtà di un mero pretesto per attirarlo in casa, ucciderlo e farlo a pezzi, facendo sparire sia il cadavere che i soldi. Pochi giorni dopo l’omicidio la Questura diffonde la foto e le vere generalità del sedicente ragioniere: è Pietro Balocco, 35enne capostazione di Settimo Torinese, originario di Fossano. Nel pied-à-terre affittato col suo vero nome in via Donizetti le prove che lo inchiodano: un breviario, una busta con 32mila lire di titoli al portatore e l’annotazione di un debito per 30mila lire, dovute dall’assassino a don Gnavi. Ma soprattutto, in quell’appartamento c’è una valigia: quando i poliziotti la aprono, con enorme raccapriccio ci trovano il torso della vittima, senza braccia né gambe. Dopo la fuga da via Maria Vittoria, intanto, si sono perse le tracce del sospettato. Ai familiari farà arrivare una lettera: “Sono innocente, mi presenterò alla Giustizia non appena avrò raccolto le prove”. Null’altro.
 
L’autore di questo crimine, sposato e padre di un bambino, è figlio di una famiglia modesta e perbene, ben conosciuta a Fossano. Suo padre è anche lui ferroviere, ma a Pietro quell’impiego da 2400 lire al mese sta stretto: “Avrebbe voluto viaggiare e divertirsi. Gli era toccato invece d’indossare la finanziera di capostazione in un piccolo paese d’accelerati” si leggerà, quasi quarant’anni dopo, nel suo necrologio. Che sia un amante della bella vita è noto già da prima che diventi un ricercato: si mormora di avventure galanti e frequenti puntate nelle case da gioco della Riviera, da Montecarlo a Sanremo. Qui in effetti trascorre parte della latitanza, dopo essersi tagliato i baffi “all’americana” e aver rimediato una divisa militare. A Genova, secondo le accuse, conoscerà un povero sarto 30enne, Virginio Isnardi. Anche lui destinato a un ruolo di primo piano in questo thriller.
 
Il 7 luglio dello stesso 1918 i giornali annunciano un clamoroso colpo di scena: l’assassino di don Gnavi si è suicidato. A Massa Lubrense, nei dintorni di Sorrento, il giorno 2 è stato trovato il cadavere di un uomo semi sfigurato da un colpo di pistola. Nelle tasche del morto la confessione: il suicida, Antonio Rizzetti, si dice “perseguitato dal rimorso” e scagiona Balocco. Sembra un film di Hitchcock, perché nemmeno Rizzetti è quel che dice di essere. Si scoprirà che il suo vero nome è Isnardi e che a sancire la sua condanna è stata una vaga somiglianza con Balocco: proprio lui gli avrebbe sparato, inscenando il suicidio, per cancellare la sua colpa. L’ultimo atto va in scena dove tutto era cominciato, a Torino. Nel pomeriggio del 23 novembre un giovane commerciante, Emilio Torello, è in attesa del tram assieme a un amico, in corso Vittorio Emanuele. Getta un’occhiata a un soldato con i baffi corti che cammina in compagnia di un civile. Li riconosce entrambi: si tratta di Pietro Balocco e di suo fratello, del quale era stato compagno di scuola.
 
Arrestato e processato, Balocco continuerà a dirsi innocente per il resto della sua vita, anche dopo che la Corte d’Assise di Torino presieduta dal barone D’Aviso, altro fossanese, lo condanna all’ergastolo con undici anni di “segregazione cellulare”. La sentenza del 1921 verrà confermata due anni dopo dai giudici di Cuneo, chiamati a decidere se applicare nei suoi confronti l’amnistia Nitti varata per i militari e gli esonerati dal servizio. Sull’ergastolano cala l’oblio fino al dopoguerra, quando in due occasioni il presidente della Repubblica Einaudi respinge le sue domande di grazia: Balocco ha più di settant’anni ed è l’ombra di ciò che era stato, il criminale le cui efferate gesta avevano conteso a Henri Landru le prime pagine dei giornali. In carcere, prima a Porto Longone sull’isola d’Elba e poi a Saluzzo, si segnala come un detenuto modello. Rifiuta perfino di uscire dalla cella quando i partigiani occupano la Castiglia all’indomani della liberazione e gliene offrono la possibilità: “Voglio uscire alla luce del sole, non così” risponde. Morirà invece il 24 gennaio 1956, da detenuto. Non una parola sulla vita passata: “Se ho avuto dei torti - dirà - ho espiato abbastanza”.

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