VIOLA - "Innesti": un sogno in divenire che racconta la rinascita dei castagneti di Viola Castello

Una chiacchierata con il regista Sandro Bozzolo in attesa della proiezione di venerdì 16 giugno a Moiola

Francesca Barbero 10/06/2023 13:38

Girato da Sandro Bozzolo nel corso di vent'anni, “Innesti” racconta la storia del recupero dei castagneti di Viola Castello, in alta Val Mongia, per mano di Ettore, padre del regista. Il documentario testimonia come grazie all'antica pratica del portare nuova linfa su un vecchio tronco- l'innesto appunto- il silenzio dell'abbandono possa mutare nel suono vivo di un bosco rinato, dei suoi nuovi abitanti e di un'intera valle che si ripopola. Il film è prodotto da Enrica Viola per UNA Film, con il sostegno di Film Commission Torino Piemonte - Piemonte Doc Film Fund. Ha ottenuto il premio EUSALP al “Trento Film Festival”, una menzione speciale a “Visioni dal Mondo- Festival Internazionale del documentario”, il premio CBR al “Festival Mente Locale”, è stato selezionato al Parma Film Festival ed è finalista al Premio Solinas per il documentario.
 
“Innesti” verrà proiettato venerdì 16 giugno alle 21, presso il Centro Saben di Moiola, nell’ambito della programmazione estiva itinerante in Valle Stura dell’Ecomuseo della Pastorizia. In attesa della proiezione abbiamo fatto una chiacchierata con il regista, che sarà presente in sala insieme al protagonista del film.
 
Innesti è un documentario sul castagno e sul recupero dei castagneti, sull'abbandono e sulla pratica degli innesti, tramite la quale si infonde sul vecchio tronco di piante esistenti nuova linfa. Ma è anche un film sulla tua storia di regista e sull'importanza della documentazione, sul rapporto con tuo padre e con la tua terra, la Val Mongia. Potremmo definirlo un sogno in divenire a cui eri destinato?
"Mi piace molto la tua idea di sogno in divenire. Per anni ho combattuto quest'idea, molto italiana, della predestinazione. E cioè del doversi necessariamente proiettare verso quel che hanno fatto i padri (ovviamente sempre intesi come genitori maschi). Come molti di noi in provincia, sono cresciuto circondato da amici che hanno subìto questo destino: 'nella nostra famiglia siamo macellai da quindici generazioni, quindi dovrò diventare anche io macellaio'. Riconosco la forza di queste continuità intergenerazionali, e allo stesso tempo mi hanno sempre spaventato. Per fortuna, invece, almeno per me il percorso di avvicinamento ai castagneti di Viola si è compiuto su base armonica. Ho vissuto le mie esperienze, e a un certo punto della mia vita mi sono avvicinato a quel mondo al quale io padre aveva silenziosamente dedicato tutta la vita. Quindi ho potuto scoprire quel mondo con sguardo più lieve. Onirico, come dici tu".
 
Quando hai quindici anni, tuo padre Ettore, protagonista del documentario, ti regala la tua prima videocamera per filmare il suo primo esperimento di innesto. Nel film compaiono le tue prime riprese in assoluto, girate nel 2002. Avresti mai immaginato che quel ragazzino “che guardava il mondo dalla sua nuova videocamera mentre Ettore lo trasformava” sarebbe diventato il regista autore di un documentario sulla rinascita di quel castagno e dei castagneti di Viola Castello? Quando ha preso vita l'idea del film?
"No, era impossibile da immaginare. L'aspetto che più ho apprezzato di mio padre in quanto padre è stato proprio questo: nonostante il suo profondo coinvolgimento con l'ecosistema dei castagneti, non ha mai imposto a noi figli nessuna scelta, e non ha mai osteggiato le nostre. Anche quando portavano lontano, come il vagabondaggio esistenziale in Sud America. Credo che l'embrione vero del film sia proprio lì: nel prendersi cura di un qualcosa che evolve e cresce in forma misteriosa, indipendente, ma che crescendo può accogliere un 'imprinting' donato dall'alto, e mai imposto".
 
Come è stato filmare e tornare in quei luoghi nel corso degli anni? Le riprese girate dal te quindicenne con la sua prima videocamera hanno un fascino particolare e rendono tangibile il discorso tempo che passa, quel tempo dell'uomo che è effimero rispetto alla secolarità delle piante di castagno (alcuni alberi hanno più di 300-400 anni), piante con una sacralità fuori dal tempo.
"Questo concetto del tempo è tornato fuori più volte, in queste cinquanta proiezioni che ha avuto finora il film. In effetti i castagni innestati presenti nelle Alpi Liguri sono probabilmente le forme di vita più longeve che abbiamo intorno, se si escludono certi licheni. Gli esemplari più antichi, presenti soprattutto in alta Valle Tanaro, furono probabilmente innestati dai monaci certosini intorno all'anno 1.000. L'arroganza con la quale solitamente ignoriamo questi monumenti viventi è piuttosto patetica, ed è una metafora perfetta della condizione umana. Alcune foto d'archivio di inizio Novecento (penso alle foto di Leonilda Prato in val Casotto, per esempio) mostrano un'umanità cambiata radicalmente nelle forme e nei colori, mentre i castagni plurisecolari sono sempre lì, esattamente identici ad allora, che ci osservano silenziosi. È il silenzio dei più forti".
 
La poesia del tempo che scorre è data anche dall'alternarsi delle stagioni con le quali il tempo dell'uomo si fonde all'interno dei boschi di castagno. Una percezione del tempo legata ai sensi, ai cicli della natura...insomma più umana.
"Esatto. Il castagneto è una roba strana: non è esattamente una pratica agricola, non è solo un raccogliere i frutti della natura. È, prima di tutto, uno spazio di espressione e di equilibrio tra l'essere umano e l'ambiente. Questo dato purtroppo viene costantemente ignorato, e il risultato è bizzarro. I figli e i nipoti di chi ha abbandonato l'80% dei castagneti d'Italia cercano conforto spirituale e psicologico in ogni tipo di pratica o sostanza proposta dal bombardamento virtuale, quando a pochi passi dalle strade asfaltate che percorriamo ogni giorno si trovano castagneti in totale abbandono. È un aspetto sul quale non si ragiona ancora abbastanza, ma non mi stupisce: tutto, nell'educazione che abbiamo ricevuto, ci ha spinti lontani da lì, dal quel contatto con la Natura che i popoli indigeni dell'Ecuador chiamano Sumak Yachak, cammino della saggezza, o Buen Vivir".
 
Nel documentario tutto ruota attorno all'Arbu. È così che in dialetto viene chiamato il castagno. Non c'è bisogno di specificarne la specie perché per tutti è l'Arbu, l'albero per eccellenza. Cosa rappresenta per te l'albero di castagno?
"Per me l'Arbu è soprattutto un tetto, una volta celeste. Un qualcosa di simile alle stelle, la cui forza si riconosce grazie a una sorta di coscienza impressa. Con il compare Simone Rossi, che ha un ruolo importante anche nel film, viaggiamo spesso a piedi, esplorando sistemi montuosi più o meno conosciuti, in Italia o nel Sud Europa. Molto spesso, inconsciamente, cerchiamo l'albero di castagno, e questo non è solamente legato a un istinto freudiano: se ci fai caso, intorno all'albero di castagno sorgono i paesaggi terrazzati, le canalizzazioni dell'acqua e i muretti a secco, i sentieri costruiti per farci passare i muli e gli 'scau', essiccatoi. Parecchi antropologi parlano a tutti gli effetti di 'civiltà del castagno' proprio per questo: perché la vita sulle montagne d'Italia, dalle Alpi agli Appennini in ogni regione esclusa la Puglia, la vita sulle montagne è stata addomesticata intorno all'Arbu".
 
"La principale malattia dei castagneti sarà l'abbandono", si afferma a un certo punto nel film. La documentazione diventa fondamentale per far conoscere questa storia -unitamente alle storie di chi recupera e riporta alla vita i boschi di castagno- per salvare quei rami secchi "che sembrano delle mani che chiedono aiuto", come dice Ettore a un certo punto.
"Sì, e credo che questo sia uno dei motivi principali per cui alla fine ho deciso di realizzare questo film. Non era facile, perché non è facile raccontare un qualcosa di così vicino e intimo che non è del tutto chiaro nemmeno a me. Eppure è sempre stato chiaro il ruolo fondamentale della comunicazione e dello scambio di informazioni in questo tempo in cui siamo immersi, e per questo motivo ho deciso di andare avanti. Ogni anno, a causa dell'abbandono, perdiamo una quantità irreversibile di castagneti plurisecolari. È un dato agghiacciante, soprattutto se si considera che la castanicoltura è l'unica e ultima fonte di produzione di cibo totalmente libera da pesticidi, chimica e industrie varie che ci è rimasta in Italia. Alla luce di questo dato, diventa più facile capire perché i castagneti di montagna versano in abbandono. È una pratica di produzione davvero ecosostenibile, libera e autonoma, che non ha bisogno di nulla e di nessuno per funzionare, e ovviamente questo non va bene a chi vuole 'far circolare l'economia'. Nessuno parla di questo, e quindi mi sembrava giusto che lo facessi io".
 
Le interviste alle “castagnere”, le raccoglitrici di castagne, testimoniano l'esistenza di un passato non poi così remoto in cui il bosco era vivo, un luogo pulsante di vita e di canti. Una dimensione che l'esperimento del Castagneto Acustico ha cercato di far rivivere.
“Nel 2010, quando mi trasferii a Viola Castello con una videocamera, accadde qualcosa di interessante: le anziane 'castagnere' raccontavano che i boschi erano soprattutto canto, musica, armonia. Per loro la dimensione dell'abbandono non prendeva forma a livello visivo (i boschi abbandonati, le case diroccate) ma a livello sonoro. Con un gruppo di amiche e di amici decidemmo così di organizzare un festival spontaneo, senza soldi e senza elettricità, per riportare suoni e voci sotto gli alberi di castagno. È stata un'intuizione felice, che prosegue tutt'ora: in questi dieci anni, al Castagneto Acustico si sono esibiti artisti provenienti da ogni linguaggio e traiettoria. Tra gli altri: un'orchestra jazz anni '20, un rappresentante della monarchia saudita, uno spettacolo di cinema d'animazione realizzato senza energia elettrica. E poi teatranti, altri musicisti, performer...Nell'ultima edizione un quartetto d'archi di grande prestigio ha eseguito una Suite per la Natura del compositore lettone Peteris Vasks, che era presente in prima persona. È stata un'esperienza incredibile, tutta realizzata senza soldi, grazie alla generosità degli artisti e delle persone che ancora credono in questa forma di fare arte e cultura senza necessariamente dover dipendere da bandi e finanziamenti. Anche quest'anno (è una notizia in anteprima!) il Castagneto Acustico probabilmente si farà, il 15 luglio. 'Probabilmente', perché prima bisognerà capire se le mucche di Aldo faranno in tempo a pascolare nel bosco prima di quella data. Il Castagneto Acustico inizia così, con il suono dei campanacci. È il suono più bello, perché racconta di un ecosistema vivo, armonico.
 
Il lavoro di Ettore, e il suo ruolo di custode dei boschi di castagno, ha fatto rivivere i castagneti di Viola Castello e oggi più persone se ne prendono cura. Simone, musicista, accompagnatore turistico e castanicoltore già citato in una risposta precedente, che lascia la città per tornare a occuparsi dei castagneti di famiglia dando vita "all'idea romantica nella sua applicazione pratica" ne è un esempio. Così tuo fratello Marco, che con il suo background di economista ha dato vita all'azienda agricola e a un e-commerce che vende prodotti a base di castagne essiccate.
"Ettore ha avuto un ruolo fondamentale: è stato l'anello di congiunzione tra il passato e il futuro, proprio in un momento storico (il passaggio di millennio) in cui pressoché ovunque quell'anello è venuto meno. E adesso a Viola Castello ci sono 7-8 nuovi abitanti, compreso il sottoscritto, che nell'ultimo decennio hanno scelto di insediarsi lì. La maggior parte di loro lavora direttamente in castagneto e vive di castanicoltura, altri, come il sottoscritto, sta con un piede nel bosco e con un altro altrove. Tutti insieme ci suddividiamo alcuni compiti. Questo approccio, che si inserisce nel filone del 'ritorno in montagna', è stato studiato dalla regista e ricercatrice Silvy Boccaletti (Università di Padova), che a Viola Castello ha girato un pezzo del suo film 'Movimento Fermo', che ti consiglio (lo proietteremo venerdì 21 luglio a Viola, ovviamente in castagneto). Il mondo accademico guarda con molto interesse questa nuova forma di abitare la montagna, che offre una possibilità concreta di coniugare locale e globale. A differenza di casi più noti ed eclatanti, a Viola Castello, così come in ogni luogo immerso nei castagneti, c'è un giacimento di ricchezza inesplorato dal quale è possibile trarre sostentamento. Speriamo che prima o poi se ne accorgano anche gli autoctoni".
 
E con Irene, danzatrice contemporanea e prima nuova “castagnera”, è tornato anche il femminile.
"Questo è un aspetto delicato della faccenda, che meriterebbe un discorso a sé. Tra quei 7-8 nuovi abitanti di cui sopra, solo una è una ragazza. Il grande problema di Viola, come di tutta la montagna italiana, è stata quella cultura patriarcale che di fatto si è dimostrata essere fallimentare, condannata dalla storia. La gente se n'è andata da queste valli perché sono state le donne, non appena hanno potuto, a fuggire in massa. E intervistando le ultime superstiti del 'piccolo mondo antico', ti assicuro che non è difficile capire il perché. Adesso però i tempi sono cambiati. La figura di Irene, nel film, rappresenta proprio questo: la possibilità di immaginare il castagneto (e dunque il luogo nel suo insieme) come uno spazio a disposizione per sviluppare le sensibilità più disparate. Al di là dei mestieri legati alla filiera della castagna, c'è spazio per danzatrici contemporanee, insegnanti di yoga, educatori ed educatrici per progetti che possano coinvolgere bambini, ragazzi, artisti e sperimentatori di ogni disciplina. L'innesto dopotutto è proprio questo: una nuova linfa, su un vecchio tronco".

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