RIFREDDO - Caterina e le altre. La vera storia delle masche di Rifreddo e Gambasca

Un delitto in monastero e una ridda di accuse furono all’origine della persecuzione di nove donne nel 1495. Ma il loro destino ci è tuttora sconosciuto

Luis Ricardo Falero, Le streghe al sabba (particolare)
Francisco Goya, Il grande caprone (particolare)
in foto: i resti del monastero di Santa Maria della Stella a Rifreddo

Andrea Cascioli 31/10/2021 12:01

È il giorno 4 di ottobre dell’anno del Signore 1495, festa di san Francesco, quando il magister Vito dei Beggiami, membro dell’ordine dei Frati Predicatori di Savigliano e “dottore in sacra teologia”, intraprende la sua azione giudiziaria contro la “setta delle masche” di Rifreddo e Gambasca.
 
L’inchiesta durerà due mesi prima che le nove accusate rendano piena confessione dei loro presunti crimini davanti all’inquisitore e alle autorità religiose e civili. Tutto incomincia con la proclamazione del tempus gratiae, i tre giorni concessi alla popolazione del luogo per riportare o ammettere qualsivoglia “delitto di fede”, ottenendo con ciò l’assoluzione. Insediato nella torre del monastero di Rifreddo, l’inquisitore riceve tra gli altri una certa Giovanna Motossa: sarà la sua confessione a innescare la caccia alle streghe.
 
Ma facciamo un passo indietro. Abbiamo detto che la vicenda si svolge a quasi tre anni esatti dal primo approdo di Colombo in America. Siamo insomma agli sgoccioli di quell’“autunno del Medioevo” descritto in una celebre opera di Johan Huizinga, nella fase del trapasso verso l’età moderna: solo undici anni prima, il 5 dicembre 1484, il pontefice Innocenzo VIII ha dato sanzione ufficiale alla credenza nella stregoneria e alla sua equiparazione di fatto con l’eresia nella lettera Summus desiderantes affectibus. Due anni più tardi viene completato il Malleus maleficarum dei frati predicatori Heinrich Kremer e Jacob Sprenger, il manuale ad uso degli inquisitori che compendia tutta la frammentaria produzione precedente. Parole come valdesia o gazzaria (in riferimento a valdesi e catari, rispettivamente) compaiono come sinonimo di stregoneria e la lotta contro streghe, stregoni ed eretici offre nuova legittimazione al potere, anche nel Saluzzese: qui, solo un quindicennio dopo i processi di Rifreddo, la marchesa Margherita di Foix avvierà una violenta repressione contro alcune piccole comunità valdesi della valle Po, a Paesana e Oncino.
 
 
Un fatto di sangue dietro alle prime accuse di stregoneria
 
L’evento che scatena la valanga di recriminazioni e fantasie destinate a travolgere le nove “masche” è un probabile delitto avvenuto nella primavera precedente. Si tratta del decesso di una diciottenne di nome Maria, inserviente dell’abbazia di Santa Maria della Stella a Rifreddo. Pochi giorni prima di morire la ragazza, costretta a letto per le percosse ricevute, avrebbe raccontato a sua madre e al cappellano della badessa, Tommaso dei Binellati, di essere stata picchiata da una donna che aveva sorpreso a rubare erbe nell’orto del monastero femminile. Quella donna è Giovanna Motossa, una vedova del luogo. Non è chiaro perché la badessa Margherita di Manton attenda diversi mesi prima di agire contro di lei: forse lo sgomento per un fatto di sangue avvenuto in luogo consacrato, assieme ai sospetti di “mascaria” che a quanto pare già circolano sul conto dell’indiziata, le consigliano di attendere l’arrivo del nuovo inquisitore generale che avviene a fine agosto, con il passaggio di consegne tra frate Aimone dei Tapparelli e frate Vito dei Beggiami.
 
Fatto sta che ai primi di ottobre ben undici persone si presentano per confermare le accuse. Scaduto il tempo di grazia, il giorno 8 compare la stessa Giovanna Motossa che rende piena confessione non solo del crimine a lei attribuito ma degli addebiti di stregoneria mossi alla secta mascharum di cui farebbe parte da ben diciotto anni. È un fiume in piena, Giovanna: chiama in causa come “complici e socie” la sua stessa figlia, Giovannina Giordana, con la quale afferma di aver condiviso perfino i favori sessuali di un demone di nome Martino, nonché altre quattro donne di Rifreddo (Margherita Giordana, Giovanna della Santa, Romea dei Sobrati, Caterina Bianchetta) e tre di Gambasca (Caterina Bonivarda, Caterina Borrella, Giovanna Cometta). Insieme a loro, dice, aveva compiuto riunioni stregonesche “nelle gravere (greti, ndr) del Po”, riti sacrileghi e malefici tali da provocare la morte di diversi neonati mentre dormivano nel letto dei genitori. Confessando le sue “colpe” di masca Giovanna si illude di sollevarsi dalle responsabilità ben più terrene che la chiamano in causa per la morte della giovane inserviente del monastero: anche quel crimine, del resto, è ricondotto a forze demoniache in grado di piegare la sua volontà.
 
 
La tragedia di Caterina Bonivarda: un’innocente nella tempesta
 
La documentazione sui processi alle masche del 1495 è giunta fino a noi grazie alla scoperta nell’archivio storico di Rifreddo di tre fascicoli integrali, tra i più antichi di questo genere conservati in Piemonte. I verbali riguardano i procedimenti a carico della citata Giovanna Motossa, di Caterina Borrella e di Caterina Bonivarda. Quest’ultima è in una posizione anomala rispetto alle coimputate, perlopiù donne povere e sole: Caterina Borrella, per esempio, al momento dei fatti è vedova da un anno e mezzo e si è ritrovata con i debiti del defunto marito da pagare, tanto che sopravvive a stento amministrando il forno di Gambasca.
 
Caterina Bonivarda invece ha un marito, Bonivardo dei Bonivardi, e un fratello, Giaffredo Bonetto di Revello, pronti entrambi a impegnare le loro non scarse sostanze per scagionarla da quelle pericolose accuse. Dai verbali si apprende in particolare che Bonivardo esercita un certo potere nella comunità gambaschese. Eppure nemmeno il suo intervento basta a fermare la drammatica escalation ispirata, a quanto pare, più dalla badessa del monastero di Rifreddo che dallo stesso inquisitore. Dopo essere stata rinchiusa nell’abbazia, in tutti gli interrogatori che si succedono a partire dal 19 ottobre l’accusata continua a negare la veridicità dei capi d’imputazione, spalleggiata dal marito e dal fratello che le fanno da procuratori. Nel frattempo però si susseguono le testimonianze a suo carico: oltre a quella della coimputata Caterina Borrella, che confessa chiamandola in causa, c’è una compaesana che l’accusa di aver lanciato una maledizione contro i suoi animali perché una delle sue vacche era entrata nel prato del marito. Entro l’anno successivo la testimone avrebbe in effetti perso una quindicina di porci “colpiti da un certo tremore”.
 
Il 25 novembre, sotto la pressione delle confessioni che si susseguono, anche Caterina cede e dichiara di essere “masca e della setta delle masche” da circa quattro anni. Descrive l’incontro con un demone di nome Giorgio presentatosi a lei come uomo “di mediocre età e statura”, vestito di nero, con calzari e cappuccio, la voce roca e una faccia “bruna ovvero livida”. Sapendola scontenta della sua vita, il demone le promette ricchezze e soddisfazioni in cambio di un sacrilego patto di cui danno conto i verbali: “Fece per terra una croce con due paglie e poi pose il deretano sopra di essa, rinnegando espressamente Dio, la fede e il battesimo: e prese il detto demone in suo amante, signore e maestro, promettendo di servirlo e di obbedirgli e di dargli ogni anno un pollo bianco”. Da quel momento il demone si sarebbe presentato a lei una volta alla settimana, quasi sempre di giovedì e di giorno, mentre di notte l’avrebbe condotta insieme alle altre masche nei sabba sulle gravere del Po e “nei crocicchi dei forni di Rifreddo”, dove ognuna si sarebbe congiunta con il proprio “maestro” infernale. La rea confessa parla, poi, di occasionali “missioni malefiche”: una collettiva a Revello, per ammazzare tre vacche, una con la sola Caterina Borrella a Gambasca per far morire il figlioletto di un certo Giaffredo Moine mentre dormiva di fianco alla madre.
 
 
Il mistero finale: cosa accadde alle “streghe” dopo il processo?
 
L’ultimo atto d’inchiesta si svolge il giorno 6 dicembre 1495, quando tutte le donne vengono convocate insieme e rendono confessioni pressoché identiche, anche riguardo a uno spaventoso episodio di antropofagia riferito al cadavere di un bambino. Il corpicino, esumato dal cimitero di Martiniana e portato nell’abitazione di Margherita Giordana a Rifreddo, sarebbe stato straziato dalle streghe che “lo cossero nell’acqua e, mettendone da parte il grasso per ungere i loro bastoni, fecero salsicce delle sue carni e fra di loro se le mangiarono e divisero, dandone anche agli altri da mangiare”. È la tortura a indurre le donne a confidare a frate Vito dei Beggiami simili orrori? Non abbiamo attestazioni a riguardo, ma la formula “extra torturam et locum torture” (“fuori dalla tortura e dal luogo di tortura”) porta a ritenere pressoché certo che almeno la Giordana e la Bonivarda fossero state torturate e solo dopo, trascorso un lasso di tempo che rendesse giuridicamente valido l’interrogatorio, avessero reso la loro confessione.
 
Cosa successe alle sventurate vittime dell’inquisizione? Nemmeno questo sappiamo con certezza. È probabile che tutti i nove procedimenti siano finiti con la condanna delle imputate in quanto “heretice, masche et apostate” e la consegna al braccio secolare per l’esecuzione della pena di morte. Ma non è escluso nemmeno che alcune circostanze imprevedibili possano essere intervenute in loro favore. A distanza di oltre cinquecento anni, il destino delle “masche” rimane un mistero.
 
 
Fonte: Rinaldo Comba-Angelo Nicolini, “Lucea talvolta la luna”. I processi alle “masche” di Rifreddo e Gambasca del 1495, Società per gli Studi Storici della Provincia di Cuneo, 2004

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