SAVIGLIANO - La leggenda di Nostradamus: il grande astrologo predisse la morte di Carlo Emanuele I a Savigliano?

Secondo alcuni l’autore delle Centurie scrisse che il duca doveva morire ‘sulla strada di Gerusalemme’: il 26 luglio 1630 si spense a palazzo Cravetta, in contrada Jerusalem

'Morte di Carlo Emanuele I di Savoia' di Nicolò Barabino

Andrea Cascioli 26/07/2020 20:22

Vi abbiamo già raccontato di come la peste del 1630, ovvero la famosa epidemia narrata duecento anni dopo da Manzoni, avesse tristemente decimato anche la popolazione della provincia Granda.
 
Complici l’afflusso di soldataglie impegnate nella guerra di successione di Mantova e gli scambi con la vicina Francia, il Piemonte pagherà uno spaventoso tributo al morbo nonostante l’adozione di pionieristici sistemi di prevenzione come le bollette di sanità, una sorta di ‘autocertificazione’ con la quale chi entrava nei dominii sabaudi dichiarava di non essere stato da un certo numero di giorni in “loco morboso”.
 
La (probabile) vittima più illustre dell’epidemia, le cui conseguenze mortifere resteranno visibili tra il 1629 e il 1633 circa, è nientemeno che il duca Carlo Emanuele I di Savoia. La sua morte avvenuta il 26 luglio 1630 a Savigliano, presso palazzo Cravetta, viene annunciata lo stesso giorno dal figlio e successore Vittorio Amedeo con una lettera ai sudditi che così incomincia: “È piaciuto al Signore, di toccarci con la Sua Mano avendoci privato questa mattina fra le 10 e le 11 ore della persona di S.A. mio signore e padre, dopo aver egli patito quattro giorni di febbri e dolori. La gravezza di questo colpo sarebbe stata sensibile in ogni tempo, ma nelle presenti congiunture si fa tanto maggiore, quanto era più necessario il valore e prudenza insuperabili dell’A.S. [Altezza Serenissima, ndr]”. Vittorio Amedeo non ne fa menzione nella sua missiva, inviata anche ai consiglieri di Cuneo, ma sussistono pochi dubbi circa la natura pestifera delle “febbri e dolori” patite dal padre.
 
Nato nel castello di Rivoli il 12 gennaio 1562, il figlio di Emanuele Filiberto e di Margherita di Francia era salito al trono appena diciottenne, il 30 agosto 1580: i contemporanei lo ricordano come un giovane di costituzione gracile, con le spalle leggermente arcuate, i lineamenti delicati e l’incarnato pallido. Dal padre, il duca Testa di Ferro, il giovane riceve un territorio che dopo la pace di Cateau-Cambrésis del 1559 ha riacquistato la propria autonomia tra le potenze europee e ha ormai stabilito il proprio baricentro in Piemonte, nella Torino che dal 1563 eredita da Chambéry il titolo di capitale dei possedimenti sabaudi.
 
Alla personalità volitiva del suo predecessore Carlo Emanuele unisce un gusto per lo sfarzo e lo splendore della corte che ne faranno uno dei sovrani più munifici e ammirati della sua epoca. È lui a rendere la nuova capitale una città all’altezza delle ambizioni internazionali dei Savoia: “Il Piemonte austero del Medioevo esce così dal suo provincialismo alpino per europeizzarsi secondo i modelli del fasto assolutista”, nota lo storico Gianni Oliva. Ma se sul piano dell’immagine i suoi successi sono esaltanti, anche grazie all’impegno di poeti e letterati di corte nel lodare il generoso principe, sotto il profilo politico e diplomatico il bilancio del suo mezzo secolo di regno sarà più contrastato: dopo una fallimentare campagna contro Ginevra l’attenzione del sovrano si rivolge sul marchesato di Saluzzo, divenuto una ‘testa di ponte’ dell’espansione francese in Italia in seguito all’estinzione della dinastia Del Vasto nel 1548. La guerra franco-savoiarda combattuta fra 1600 e 1601 si conclude in sostanza con uno scambio sancito dal trattato di Lione: il Piemonte guadagna l’ex capitale del marchesato e i suoi antichi possedimenti, con gli avamposti di Centallo, Demonte e Roccasparvera che erano stati occupati dal nemico, ma cede alla corona francese la Bresse, il Bugey e la Valromey, zone transalpine difficili da controllare.
 
Il rapporto controverso con la Francia sarà all’origine anche dell’ultima sfortunata avventura militare del duca, ovvero l’intervento nella guerra di successione di Mantova e del Monferrato. La morte senza eredi dell’ultimo Gonzaga, Vincenzo II, innesca un conflitto che si protrarrà tra il 1628 e il 1631 opponendo i francesi, calati oltralpe in supporto alle pretese di Carlo di Nevers, agli ispano-piemontesi. Le sorti della guerra tuttavia non arridono a Carlo Emanuele che vede i soldati dell’odiato cardinale Richelieu occupare la Savoia e dilagare in Piemonte: si evita l’occupazione di Torino, ma non quelle di Rivoli, Avigliana, Pinerolo e Saluzzo. Nell’estate del 1630 il duca si trasferisce a Savigliano per scongiurare l’invasione dell’ultimo lembo di pianura fedele alla casata, ma qui viene colto dalla malattia che gli sarà fatale.
 
Sulla sua improvvisa morte all’età di 68 anni circola una leggenda che chiama in causa il più celebre astrologo e occultista del XVI secolo: il francese Michel de Nostredame, meglio noto alla posterità come Nostradamus. Secondo alcune fonti sarebbe lui l’autore del Pronostico pel duca Carlo Emanuele I vergato nel 1562 e conservato alla Biblioteca Reale di Torino: l’anno prima, Nostradamus sarebbe giunto da Nizza nella capitale sabauda per predire ai duchi la nascita del sospirato erede maschio. Al futuro successore di Emanuele Filiberto, l’autore delle Centuries et prophéties avrebbe predetto che sarebbe divenuto il più grande condottiero del suo tempo e che sarebbe morto infine “sulla strada di Gerusalemme, quando un nove si troverà davanti a un sette”. Cosa c’entra tutto questo con Savigliano? È presto detto: palazzo Muratori Cravetta sorge in una via che era già allora nota come contrada Jerusalem. Al momento della morte, Carlo Emanuele I aveva 68 anni e si trovava quindi nel sessantanovesimo anno di vita: “il nove davanti a un sette” della profezia, ovvero l’ultimo anno prima dell’ingresso nel settantesimo.
 
Che sia vero oppure no quel che la voce dei secoli ha attribuito a Nostradamus, pare comunque fuor di dubbio che per il Cuneese quelli furono anni di grandi travagli e presagi funesti. Lo ricorda lo storico ottocentesco Ferdinando Gabotto nella sua Storia di Cuneo, elencando i numerosi flagelli ed eventi sinistri registrati dai cronisti dell’epoca: “1579, 17 aprile, nevicata straordinaria; 1580, pestilenza con morte di un migliaio di persone; 1584, cometa in figura di tromba fiammeggiante; 1601, altra cometa; 1606, nuova pestilenza; 1607, inondazione del Gesso con rovina di molte case; 1608, carestia; 1621, timore di altra; 1623, inondazioni ancora; 1625, 23 giugno, incendio della torre del Comune a cagione dei fuochi di gioia della vigilia di san Giovanni; 1630-1632, terribile contagio, quello stesso che per Milano fu descritto dal Manzoni, e che Cuneo cercò invano di scongiurare con una solenne processione ed altre pubbliche preghiere”.

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