SAVIGLIANO - Santorre di Santa Rosa, il patriota saviglianese che morì per la libertà della Grecia

Protagonista dei moti del 1821 in Piemonte, visse in esilio braccato dalle polizie di mezza Europa e cadde in battaglia sotto falso nome

in foto: un'illustrazione relativa alla morte di Santa Rosa in battaglia
in foto: il monumento di Santorre di Santa Rosa a Savigliano
in foto: ritratto di Santorre di Santa Rosa
in foto: cenotafio di Santa Rosa a Sfacteria
in foto: scena di una battaglia della guerra d'indipendenza greca

Andrea Cascioli 20/03/2022 14:32

Molti di noi ricordano, almeno da qualche reminiscenza scolastica, la figura del letterato e patriota saluzzese Silvio Pellico, il celebre autore de Le mie prigioni. Meno noto tra i patrioti risorgimentali della Granda è il saviglianese Santorre di Santa Rosa, al quale comunque la sua città natale ha intitolato la bellissima piazza con architetture medievali che ospita anche il suo monumento.
 
Santorre Annibale Filippo Derossi, conte di Pomerolo e signore di Santa Rosa, nacque il 18 ottobre 1783 da una delle famiglie più in vista della nobiltà saviglianese. Suo padre Michele Derossi di Santa Rosa era colonnello della Regia Armata Sarda all’epoca della rivoluzione francese, mentre la madre Paolina Edvige Regard de Ballon morì quando il figlio aveva appena sette anni. Le cronache ricordano che Santorre Annibale fu avviato al “mestiere delle armi” fin dalla più tenera età. Il padre infatti l’aveva condotto con sé durante le guerre delle Alpi che opponevano all’esercito sabaudo l’armata francese, nelle cui fila non avrebbe tardato a mettersi in mostra un giovane ufficiale corso, Napoleone Bonaparte. Bonaparte ritornerà sulle alture cuneesi come comandante dell’Armée d’Italie, nell’aprile del 1796. Durante la cosiddetta campagna di Montenotte, prima fase della campagna d’Italia, il futuro imperatore sbaraglia gli austropiemontesi a Montenotte, Millesimo e Dego, per chiudere infine i conti nella battaglia di Mondovì. Insieme a quel che resta dell’esercito piemontese, condotto da Michele Colli e ormai abbandonato dagli alleati austriaci in ritirata, ci sono i Granatieri reali al comando di Santa Rosa: suo figlio tredicenne è alfiere del reparto. Terminata la prima effimera dominazione francese e l’occupazione austro-russa del Piemonte, il colonnello Derossi di Santa Rosa cadrà nella decisiva battaglia di Marengo del 14 giugno 1800.
 
Il giovane Santorre intanto sta conducendo i suoi studi prima a Savigliano e poi all’università di Torino, appassionandosi all’attività politica. Tra i suoi concittadini è già abbastanza stimato da essere eletto nel 1807, ad appena ventiquattro anni, alla carica di maire, ovvero sindaco. Un incarico che Santa Rosa abbandonerà poi per entrare nell’amministrazione francese e ricoprire, tra il 1812 e il 1814, il ruolo di sottoprefetto a La Spezia. Una volta restaurata la monarchia sabauda, sarà capitano dei granatieri nella campagna in Savoia e nel Delfinato e prenderà parte alla battaglia di Grenoble del luglio 1815, poche settimane dopo la disfatta napoleonica a Waterloo. Negli anni che seguono è protagonista di una brillante carriera nei ranghi dell’amministrazione militare, sotto Vittorio Emanuele. Ma ad essergli vicino è soprattutto il principe ereditario, Carlo Alberto, al quale lo uniscono le spiccate simpatie liberali. Santorre è infatti un esponente di punta della Carboneria e vagheggia un’insurrezione militare nella quale il Piemonte dovrebbe prendere la guida del movimento nazionale, contro l’assolutismo imposto dalla Santa Alleanza.
 
 
Dalla cospirazione all’insurrezione: Santa Rosa ispiratore dei moti del 1821
 
L’occasione propizia, o almeno così crede, si presenta a seguito di un’ondata di moti insurrezionali che dalla Spagna si diffondono alla Sicilia e al regno di Napoli, tra il 1820 e il 1821. I disordini si estendono anche a Torino quando alcuni studenti universitari, durante il carnevale, ostentano berretti rossi in favore di Carlo Alberto quale fautore dell’unità italiana e vengono incarcerati. Una manifestazione animata dai loro compagni e da alcuni professori viene repressa con violenza il giorno successivo, ma il principe di Carignano solidarizza con i dimostranti. È la sera del 6 marzo 1821 quando Santorre di Santa Rosa, Giacinto Provana di Collegno, Carlo Emanuele Asinari di San Marzano, Guglielmo Moffa di Lisio e Roberto d’Azeglio incontrano il principe, per chiedergli di mettersi alla testa della rivolta. I carbonari piemontesi non vogliono rovesciare la monarchia, ma ottenere riforme che la riavvicinino al popolo: l’idea è quella di sollevare l’esercito, circondare il castello di Moncalieri dove dimora il re Vittorio Emanuele e costringerlo a deliberare la costituzione e l’entrata in guerra contro l’Austria.
 
Sobillati dai congiurati, i reparti militari di Alessandria al comando del cerverese Guglielmo Ansaldi si sollevano il 10 marzo, issando il tricolore italiano sulla cittadella per la prima volta nella storia risorgimentale. Li seguono i presidi di Vercelli e Torino. Gli insorti pubblicano un Pronunciamento, con il quale annunciano l’intenzione di adottare una costituzione che ricalca quella spagnola di Cadice del 1812. Il re, piuttosto che cedere, abdica in favore del fratello Carlo Felice che in quel momento si trova a Modena. La reggenza temporanea viene assunta dal principe Carlo Alberto che concede la costituzione e nomina Santorre di Santa Rosa ministro della guerra nel governo provvisorio. Presto la situazione precipita: il reggente 23enne era già assalito da dubbi prima dell’insurrezione, fino al punto di rivelare a suo padre (troppo tardi) l’esistenza della congiura. Quando lo zio gli intima di rimettersi al suo volere, Carlo Alberto abbandona gli insorti al loro destino e si rifugia a Novara, nella notte del 22 marzo. Santa Rosa e gli altri, nel frattempo, stanno annunciando una prossima guerra contro l’Austria. È lo stesso ministro della guerra a raggiungere il principe poche ore dopo per convincerlo a tornare sui propri passi, ma la missione è inutile.
 
Il 23 marzo Santa Rosa pubblica un ordine del giorno per informare la popolazione di quanto accaduto. Non recrimina contro Carlo Alberto, “il cui liberale animo, la cui divozione alla Causa Italiana furono sino ad ora la speranza di tutti i buoni”. Nemmeno contro il reazionario Carlo Felice, sul quale tuttavia osserva: “Un Re Piemontese in mezzo agli Austriaci nostri necessarii nemici è un Re prigioniero; tutto quanto egli dice, non si può, non si deve tenere come suo. Parli in terra libera, e noi gli proveremo d’essere i suoi figli”. Ai soldati piemontesi si rivolge infine per scongiurare uno scontro fratricida, invitando all’unità contro l’Austria: “Comandanti dei Corpi, Ufiziali, Sotto-Ufiziali e Soldati! Qui non v’è scampo, se non questo solo. Annodatevi tutti intorno alle vostre insegne, afferratele, correte a piantarle sulle sponde del Ticino, e del Po; la terra Lombarda vi aspetta; la terra Lombarda che divorerà i suoi nemici all’apparire della nostra vanguardia”. Ma l’insurrezione ha ormai le ore contate e al suo capo militare, abbandonata l’idea di ripiegare su Genova in un’estrema difesa, non resta che la via dell’esilio per sfuggire a una probabile condanna a morte.
 
 
Gli anni amari dell’esilio: una “cospirazione letteraria” a Parigi e a Londra
 
Nell’ultimo proclama il rivoluzionario saviglianese aveva ricordato ai compagni d’armi che “questa è un’epoca Europea” e garantito che “la Francia anch’essa solleva il suo capo umiliato abbastanza dal Gabinetto Austriaco, e sta per porgerci possente ajuto”. Ma la realtà che lo attende al di là delle Alpi è ben diversa. Nella Parigi di Luigi XVIII, dove ripara dopo alcuni mesi di soggiorno in Svizzera, gli esuli piemontesi sono visti con ostilità dall’occhiuta polizia. Qui Santa Rosa assume lo pseudonimo di Conti e vive in ristrettezze, occupando un modesto alloggio nel Quartiere Latino assieme al fedele amico Luigi Ornato. Si legge nelle note biografiche inserite a premessa della sua Storia della rivoluzione piemontese del 1821: “Era tutto pieno dell’idea di giovare all’Italia, preparando scritture morali e politiche che rigenerassero ed educassero i popoli italiani. Chiamava ciò una cospirazione letteraria, e si confortava di poterla efficacemente intraprendere”.
 
In terra di Francia le cose si complicano per lui e per gli altri fuoriusciti quando il conte di Villèle, ultrarealista, diviene presidente del Consiglio. Per sottrarre all’arresto l’amico piemontese, il filosofo Victor Cousin lo ospita nella sua casa di Auteuil. Una notte, però, Cousin è costretto a rientrare a Parigi perché afflitto da grave malattia: Santa Rosa lo segue per assisterlo, ma la polizia lo scopre e lo arresta. Trascorrerà in carcere due mesi, rischiando l’estradizione e quindi il patibolo, prima di essere assolto da un tribunale. Le sue traversie non sono finite: insieme ad altri fuoriusciti piemontesi viene confinato prima ad Alençon e poi a Bourges, lontano dagli amici e dai suoi amati libri. Finalmente, ai primi di ottobre del 1822, il governo francese gli accorda il lasciapassare per l’Inghilterra. Si stabilisce a Londra, vivendo per qualche tempo in una casetta che aveva ospitato Foscolo, poi a Nottingham nella speranza di mantenersi dando lezioni di italiano e francese. È in condizioni ancora più precarie di quanto non fosse in Francia, oppresso dal pensiero della lontananza dalla famiglia e soprattutto dall’idea di non poter contribuire all’educazione dei figli: “Temo - scriverà nel 1824 - che se il re rende i miei beni alla mia moglie e ai miei figli, non voglia incaricarsi dell’educazione di questi. Io fremo all’idea che i miei figli siano allevati dai gesuiti”.
 
 
Da ex ministro a soldato semplice in Grecia: “Chi sa qual fine ci attende!”
 
In questo stesso periodo confida per lettera a un amico: “Quando si ha un’anima forte conviene operare, scrivere o morire”. Ed ecco che l’occasione di tornare all’azione finalmente gli si presenta. Già dal fatidico 1821 il popolo greco è insorto contro la dominazione turca, guadagnando subito le simpatie degli intellettuali europei. In molti vedono nella volontà di indipendenza dell’antica Ellade una riscossa della civiltà classica e un riflesso delle sfortunate lotte condotte in patria, in nome della libertà. In Inghilterra, in particolare, è attiva un’associazione filoellenica della quale fa parte lord Byron: il celebre poeta romantico si è addirittura arruolato per combattere sul suolo greco. Vi morirà il 19 aprile 1824, a Missolungi, vittima di febbri reumatiche. In quello stesso anno anche Santa Rosa decide di dare il suo contributo in prima persona e si imbarca il 1 novembre assieme all’amico Giacinto Provana di Collegno. Il 4 dicembre i due italiani vedono apparire all’orizzonte le montagne del Peloponneso: “Io non so perché mi dispiaccia che sia finito il viaggio: - scrive Santa Rosa - la Grecia non risponderà forse alla idea che me ne ero formata: chi sa quali accoglienze, chi sa qual fine ci attende!”.
 
È un presentimento veritiero, dato che - ad onta di quanto gli era stato promesso dai delegati greci a Londra - il governo nazionale insediato a Nauplia lo riceve con freddezza. Il 2 gennaio 1825, ancora in attesa di sapere se gli verrà assegnato un qualunque incarico, lascia Nauplia per Atene. Visita nel frattempo Epidauro, l’isola di Egina e il tempio di Giove Panellenico, e il 6 giunge ad Atene da dove intraprenderà un’escursione per l’Attica, cercando Maratona e il capo Sunio. “Sopra una colonna del tempio di Minerva Suniade scrisse il suo nome e quello dei due amici Provana e Ornato, come monumento della loro amicizia” annota il biografo, ignaro di dar conto di un gesto che indignerebbe i più civili tra i visitatori moderni.
 
Alla fine il governo si decide a rispondergli ma gli fa sapere che, poiché la sua fama di cospiratore è troppo nota, se intende restare dovrà arruolarsi sotto falso nome per non compromettere i rapporti della Grecia con le potenze della Santa Alleanza. L’ex ministro, pur di dimostrarsi utile alla causa, accetta queste umilianti condizioni e si arruola come soldato semplice con il nome di Annibale Derossi. Tra febbraio e marzo partecipa agli scontri di Patrasso, dove l'esercito greco avrà la meglio su quello ottomano. Il 19 aprile è fra le truppe che sconfiggono il pascià Ibrahim, governatore ottomano della Morea, e giungono due giorni dopo a Navarino, dove si prepara un assedio. Di un episodio funesto, accaduto il giorno 20, dà conto in una lettera indirizzata a un amico di Londra: Santa Rosa portava sempre con sé il ritratto dei figli, ma accortosi che alcune gocce d’acqua erano penetrate fra il vetro e la miniatura l’aveva aperta per asciugarla. Nel fare questo, aveva per errore cancellato a metà il viso del suo primogenito Teodoro. “Tu ne riderai, ma sento dopo di ciò ch’io non devo più rivedere i miei figli” scrive amareggiato al suo corrispondente.
 
Ai primi di maggio la flotta egiziana di Mehmet Ali, vassallo della Sublime Porta, giunge con un contingente di 17mila uomini per stroncare l’insurrezione. I greci comandati dal primo ministro in carica Alessandro Mavrocordato devono fermarli all’imbocco della baia di Navarino, presso l’isola di Sfacteria, difesa da un migliaio di greci con quindici pezzi d’artiglieria. La sera del 7 maggio vengono inviati cento soldati di rinforzo: Santa Rosa è uno di loro. La mattina successiva il diplomatico francese Edouard Grasset, segretario di Mavrocordato, giunge sull’isola per verificare lo stato delle fortificazioni. A Santa Rosa propone di rientrare con lui, perché lo scontro non fa presagire nulla di buono: “No, io resterò qui, voglio vedere i turchi più da vicino” gli risponde il saviglianese. Lo stesso giorno Sfacteria cade in mani nemiche e solo pochi tra i difensori riescono a mettersi in salvo sulle imbarcazioni. Santa Rosa non è tra questi.
 
Il giornale greco L’Amico della Legge annuncia con queste parole la sua morte: “L’amico zelante dei Greci, il conte di Santarosa è caduto da valoroso in questa battaglia. La Grecia perde in lui un amico sincero della sua indipendenza e un ufficiale sperimentato che con le sue cognizioni e con la sua attività le sarebbe stato di gran vantaggio nella lotta presente”. Il suo corpo non verrà ritrovato nemmeno quando l’amico Provana di Collegno, il 16 dello stesso mese, riuscirà a tornare sull’isola. Quando Cousin viene a conoscenza della triste notizia offre al governo greco di innalzare, a sue spese, un cenotafio. Non riceve risposta, ma insieme al colonnello Charles Nicolas Fabvier, volontario in Grecia e suo connazionale, decide comunque di provvedere. All’entrata di una grotta, dove si raccontava che Santa Rosa fosse caduto per mano di un rinnegato maltese, sorge a tutt’oggi un monumento con un’iscrizione che lo ricorda.

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