CUNEO - Marta Busso, la ‘dottor House’ cuneese: ‘L’Italia non crede nei giovani medici’

A soli 26 anni ha diagnosticato una rara malattia ed è finita in un documentario Netflix. Ma dopo la laurea è volata in Germania: ‘Qui non devi farti mantenere dai genitori’

Andrea Cascioli 11/08/2019 07:52


Ventisei anni, una laurea in medicina in tasca e un futuro prossimo in Germania dove si sta specializzando per diventare pediatra. Fino a qui la storia della cuneese Marta Busso non è diversa da quelle degli oltre diecimila giovani dottori (cui si aggiungono più di ottomila infermieri) che negli ultimi dieci anni hanno messo la laurea in valigia e sono partiti per l’estero. Secondo la Commissione Europea, il 52% dei medici che emigrano nel vecchio continente sono italiani. Un esodo enorme, senza le solite distinzioni Nord-Sud, se è vero anzi che a guidare la classifica è il ricco Veneto da cui espatriano ogni anno ben 80 camici bianchi su 1500.

La storia di Marta, però, ha qualcosa in più. Perché nei mesi in cui stava ultimando la sua tesi sul trapianto di fegato nelle malattie metaboliche, seguita dal dottor Spada dell’ospedale ‘Regina Margherita’ di Torino, ha trovato il tempo per risolvere un caso clinico giudicato ‘impossibile’ dai luminari americani, lasciando a bocca aperta il New York Times e la piattaforma televisiva online Netflix, che a questo giallo della medicina ha dedicato un intero episodio in una serie di prossima uscita.

Tutto incomincia proprio dalla serie tv, nell’aprile di quest’anno. Marta ne è incuriosita, cerca informazioni in merito e si imbatte in un articolo del quotidiano newyorkese che ne parla, illustrando il primo caso clinico a cui i produttori statunitensi si sono interessati: è quello di Angel Parker, un’infermiera 22enne di Las Vegas che da quasi dieci anni soffre di periodiche crisi muscolari che le impediscono perfino di camminare e la costringono a ricoveri mensili di diversi giorni. Una condizione estenuante per la ragazza, che aveva visitato decine di specialisti in prestigiose università senza ottenere un responso sull’origine del suo male. Un’amica ha perfino raccolto 10mila dollari per finanziare le sue visite grazie al sito web GoFundMe: nemmeno questo era servito a nulla, se non a convincere Netflix a interessarsi alla sua vicenda.

L’autrice del pezzo sul New York Times, infatti, è una ex giornalista divenuta medico internista, Lisa Sanders, che tuttora sulle colonne del prestigioso quotidiano cura la rubrica ‘Diagnosis’, a cui è ispirata questa omonima produzione televisiva sulle patologie rare e i casi clinici irrisolti. La dottoressa Sanders allega all’articolo la cartella clinica di Angel, così da offrire ai lettori più qualificati la possibilità di suggerire una loro ipotesi di diagnosi. È proprio quello che fa la laureanda di Cuneo, intuendo che il problema di salute dell’americana possa avere qualcosa in comune con ciò di cui si sta occupando: “Ho inviato la mia proposta quasi per gioco - racconta -, non credevo nemmeno che qualcuno l’avrebbe letta davvero”. Qualcuno invece la legge, ed è proprio Lisa Sanders. Ne rimane colpita e chiede alla produzione Netflix di mettersi in contatto con Marta.

Nel volgere di qualche chiamata via Skype si decide di inviare al ‘Regina Margherita’ i campioni di sangue della paziente per le prime analisi. A inizio giugno arriva anche Angel, accompagnata dal fidanzato e dal cameraman di Netflix che girerà l’intero episodio di ‘Diagnosis’ a Torino, seguendo il percorso diagnostico: il team medico che si occupa del caso è diretto da altri due cuneesi, il primario di pediatria dottor Marco Spada, che è anche relatore della tesi di Marta, e il dottor Francesco Porta. Una settimana di esami basta a confermare la diagnosi iniziale. La patologia riguarda un difetto nel metabolismo degli acidi grassi: ne soffrono circa un centinaio di persone al mondo, ma con mutazioni diverse nel DNA rispetto a quelle che presenta Angel. La giovane ‘dottor House’ italiana aveva ragione, insomma, ma lei si schermisce: “È stato un caso. Non avevo mai visto pazienti con questa malattia, ma lavorando sulla mia tesi avevo approfondito questi temi”.

Sembra strano che a nessuno fosse venuto in mente di svolgere esami di carattere metabolico, spiega, ma “nel sistema sanitario americano, basato sulle assicurazioni private, non è così facile avere una diagnosi”. Almeno in questo possiamo essere orgogliosi del nostro modello di sanità, ma per quanto tempo ancora, considerando che migliaia di giovani medici come Marta sono costretti a lasciare la penisola? “Dopo la laurea e l’esame di Stato, ho ricevuto un’offerta dalla Germania e ho deciso di trasferirmi” racconta la futura pediatra. La aspettano cinque anni di specializzazione a Friburgo, dove c’è anche un grande centro di medicina metabolica: “Si può dire che sia stata una scelta perché nessuno mi ha ‘obbligata’ ad andar via. Sarei potuta restare a Torino senza problemi, ma non avrei portato avanti le mie ricerche come è possibile fare in Germania e con condizioni di vita molto migliori”.

Il problema, infatti, è fare in modo che gli specializzandi siano ripagati dopo anni di fatiche: “Considerando ciò che finisce in tasse, e nel caso dei fuorisede anche in spese d’affitto, in Italia una borsa di specialità non ti rende davvero autonomo. Ma una volta che ti laurei in medicina, non hai più voglia di farti mantenere dai tuoi genitori a vita”. In Germania, inoltre, sono gli ospedali a firmare i contratti con gli specializzandi e a stabilire la loro retribuzione, mentre in Italia è tutto gestito in modo centralizzato ed è più difficile premiare i talenti. Senza contare che mentre si parla di coprire le carenze di organico degli ospedali con i medici militari, i dottori in pensione e perfino gli studenti all’ultimo anno, la politica non ha ancora messo mano a una seria riforma del sistema delle borse: “Quello che bisogna fare è investire sui giovani medici che hanno già passato l’esame di Stato. Le borse di specialità sono la metà rispetto ai laureati che escono dalle università, così circa 4mila laureati restano ogni anno a casa. Questo è davvero vergognoso”.

Marta, comunque, vede anche l’aspetto positivo del suo ‘esilio’: la possibilità di capire come si lavora in altri sistemi sanitari e conoscere altri punti di vista, prima di scegliere, eventualmente, di tornare. È quello che pensa di fare quando completerà il suo percorso post-laurea. Nel frattempo si tiene in contatto con il dottor Spada, e anche con Angel, la ragazza che ha seguito a Torino: ora sta molto meglio, è tornata a camminare e ha potuto riprendere perfino a fare sport.

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