CUNEO - Quando nella placida Cuneo il tricolore italiano era ritenuto “sovversivo”

Nella prima metà dell’Ottocento il titolare di un caffè fu costretto a cambiare la tappezzeria perché… rossa, verde e bianca

La bandiera italiana - Museo del Risorgimento (Torino)

Samuele Mattio 03/01/2022 17:41

Sembra strano dirlo, a maggior ragione al termine di un anno nel quale il tricolore ha sventolato in tutto il mondo per celebrare le vittorie dei nostri atleti in diversi sport. Due su tutte, il sorprendente trionfo agli Europei di calcio della Nazionale di Roberto Mancini e l’inaspettata medaglia d’oro di Marcell Jacobs nei 100 metri piani alle Olimpiadi di Tokyo. Un vero e proprio moto d’orgoglio per tutta la Nazione, che in qualche modo ha risvegliato dal torpore post-lockdown il sentimento patriottico, alla faccia dei rivoluzionari da tastiera pronti a ricordare un giorno sì e l’altro pure che “gli italiani scendono in piazza solo per festeggiare”. Peraltro scriviamo certi di non turbare il sonno eterno dell’ex primo ministro britannico Winston Churchill, il quale ha consegnato alla storia un aforisma che recita così: “Gli italiani perdono le partite di calcio come se fossero guerre e perdono le guerre come se fossero partite di calcio”. Il riferimento alle vittorie sportive è un espediente per sottolineare come di questi tempi il tricolore, spesso esposto fieramente alle finestre per le vie del Belpaese, sia un indiscutibile simbolo di unione. Eppure c’è stato un tempo in cui i tre colori che compongono la bandiera nazionale non erano visti di buon occhio. Se state pensando alla Lega Nord secessionista e alle vecchie uscite di Umberto Bossi, quello che in un comizio del luglio 1997 arrivò a dirsi pronto a utilizzare la bandiera italiana per tergersi il deretano, state sbagliando strada. La storia che stiamo per raccontare si è svolta molti anni prima, precisamente nell’agosto del 1842 e, manco a dirlo, in quel di Cuneo. 
 
Sedici anni prima, nel 1826, il signor Agostino Viecca aveva aperto un pubblico esercizio che sarebbe diventato presto un punto di riferimento per i cuneesi dell’epoca: “Il Caffè di città”. Il locale era situato all’angolo tra i portici di via Roma e l’allora “contrada del Corpo di Guardia”, dal 1874 ribattezzata via alla Ferrovia e oggi via Armando Diaz. Il nome mantenuto per gran parte del secolo lungo si deve al fatto che all’inizio della strada aveva avuto sede il Corpo di Guardia della Piazza, mentre quello del caffè era una sorta di omaggio nei confronti della città: per aprire, il locale godette di un aiuto dall’amministrazione. Il Viecca peraltro doveva essere un perfetto anfitrione: “Uomo simpatico, riposo nel discorso, gentile nel tratto, raffinato nei gusti, comprendeva in sé quant’era necessario per conquistarsi le grazie di larga clientela, specie del mondo signorile” racconta Camillo Fresia nel suo libro “Vecchia Cuneo - Miscellanea cronistorica”, da cui nei giorni scorsi abbiamo attinto per raccontare le vicende dell’albergo della Barra di Ferro. Oltre a saperci fare con la clientela, il Viecca aveva anche buon gusto. Scrive ancora il nostro: “Il suo Caffè era oggetto di continui miglioramenti; ed ogni anno, in occasione delle feste patronali, presentava agli avventori qualche rinnovazione di tappezzeria, qualche variante alle decorazioni, con lo sfoggio di un lusso forse più unico che raro, allora, nelle città di provincia”.
 
Forse vi starete chiedendo che cosa c’entri un caffè di Cuneo con il tricolore? La risposta non tarderà ad arrivare. Per i rinnovi della tappezzeria il Viecca era solito rivolgersi a tal Clemente Morano, un artigiano di conclamata abilità al quale infatti era stata data la possibilità di ornare la sua insegna con le armi reali e di qualificarsi, nientemeno, come “Tappezziere di Sua Maestà”. Il riconoscimento gli venne attribuito quando si occupò di abbellire il palazzo del Governatore, nel 1829, quando alloggiarono nell’edificio in occasione della loro visita a Cuneo il re Carlo Felice e la regina Maria Cristina di Borbone.
 
Arriviamo finalmente all’agosto del 1842, quando il signor Viecca venne addirittura convocato dal Governatore*. Sulle prime il buon Agostino pensò che l’alto funzionario volesse avvalersi dei suoi servizi per un rinfresco e trasalì quando questi lo accusò: “Chi v’ha dato la baldanza di fare manifestazioni politiche nel vostro Caffè?”. Il Viecca rimase sorpreso, perché non aveva mai fatto propaganda all’interno del suo locale, ma fu lo stesso Governatore a chiarirgli le idee. Il tappezziere, rinnovando le decorazioni, aveva intrecciato festoni rossi con festoni verdi. Il che, unito al bianco delle cortine, formava il tricolore, allora ritenuto “sovversivo”. L’esercente dovette sudare le proverbiali sette camicie e ricorrere a tutta la sua capacità oratoria per convincere l’alto papavero che si era trattato di una mera casualità, impegnandosi però a sostituire la tappezzeria. Alla fine il Governatore si convinse e al netto di qualche minaccia - “non sapete che vi faccio finire in prigione?” - il Viecca venne lasciato andare “a patto che… c’intendiamo”. “Così, per una volta tanto, le parti si erano invertite: invece di propinarlo all’avventore, l’esercente aveva dovuto trangugiarselo lui, il cicchetto…” commenta Fresia con ironia. 
 
Come mai il Governatore era tanto spaventato dal tricolore? Nei decenni che seguirono il Congresso di Vienna, il vessillo che verrà poi adottato come bandiera italiana era visto con il fumo negli occhi dai garanti della Restaurazione. Questo perché nell’Italia di fine Settecento, attraversata dalle vittoriose armate di Napoleone Bonaparte, le numerose repubbliche di ispirazione giacobina che avevano soppiantato gli antichi Stati assolutisti avevano adottato quasi tutte, con varianti di colore, bandiere caratterizzate da tre fasce di uguali dimensioni, chiaramente ispirate al modello francese del 1790. La nostra bandiera nazionale nacque a Reggio Emilia il 7 gennaio 1797, quando il Parlamento della Repubblica Cispadana, su proposta del deputato Giuseppe Compagnoni, decretò “che si renda universale lo stendardo o bandiera cispadana di tre colori verde, bianco, e rosso, e che questi tre colori si usino anche nella coccarda cispadana, la quale debba portarsi da tutti”. C’è però un precedente che ci riguarda da vicino: nell’archivio storico del comune di Cherasco è conservato un documento che attesta il primo accenno al tricolore italiano alla data del 13 maggio 1796, in occasione del celebre armistizio tra Napoleone e le truppe austro-piemontesi all’esito del quale Vittorio Emanuele I di Savoia fu costretto a cedere Nizza e la Savoia alla Francia. Qui si legge, con riferimento agli stendardi comunali issati su tre torri del centro storico: “(…) si è elevato uno stendardo, formato con tre tele di diverso colore cioè rosso, bianco e verde”. Sul documento il termine “verde" è stato successivamente sbarrato e sostituito da “bleu”, cioè dal colore che forma la bandiera francese.
 
Negli anni in cui è ambientata la nostra storia il vessillo tricolore continuava a essere innalzato, quale simbolo di libertà: nei moti del 1831, nelle rivolte mazziniane, nella disperata impresa dei fratelli Bandiera. Di qui si comprende la rigida posizione del governatore nei confronti del povero signor Viecca, in versione “Monsù Travet”. Nei decenni a seguire la nostra bandiera conoscerà maggiore fortuna, ma l’episodio fa tuttora riflettere su come le sensibilità e i simboli mutino il loro significato nel corso del tempo. 
 
 
* Riferendosi al governatore il cronista Camillo Fresia scrive: “(…) che doveva essere, se non erro, il famoso Galateri”. Se il riferimento è a Giuseppe Gabriele Maria Galateri, conte di Genola, questi è stato sì governatore di Cuneo, ma dal 1822 al 1824, mentre i fatti si sarebbe svolti nel ‘42. È però lo stesso Fresia, poche righe sopra, a precisare di non essere certo delle date.

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