CUNEO - Nella cabina elettorale uno vale uno, ma se uno resta a casa... vale zero

Ai ballottaggi astensionismo da record. A Cuneo il dato è preoccupante: si è recato ai seggi solo il 36,72% degli aventi diritto

Samuele Mattio 30/06/2022 13:15

C’è quello che davanti a uno spritz si atteggia a esperto di geopolitica, svelando tutti i retroscena della guerra in Ucraina manco fosse Dario Fabbri, ma che il giorno dopo le elezioni ammette con candore: “Ero al mare, mi sono dimenticato di andare al seggio”. C’è quell’altro che al primo turno è andato a esprimere la preferenza per lo zio dell’amica che si è candidato al Consiglio comunale, ma del ballottaggio non ha voluto saperne perché, ammette sconsolato: “Non mi sono informato adeguatamente”. Come dargli torto, lo si capisce pochi minuti dopo, quando chiede il funzionamento del secondo turno - dove, peraltro, era in competizione il candidato sindaco da lui votato due domeniche prima. Ma tant’è. Poi c’è quello che, spaparanzato su una panchina in via Roma, racconta orgoglioso di avere la tessera elettorale immacolata e di non aver mai votato neanche alle elezioni dei rappresentanti di classe alle Superiori. Evidentemente, nel suo singolare codice morale, apporre una x su un nome dev’essere un comportamento riprovevole.
 
Chi scrive non ha dovuto lavorare di fantasia e, con buona probabilità, è abbastanza certo di non incrinare i rapporti con i soggetti appena citati. Vuoi perché sono amici con una buona dose di ironia, vuoi perché è molto probabile che - non avendo avuto alcun interesse a esercitare il loro diritto di voto - non leggeranno un articolo sull’astensionismo dove li si percula.
 
Durante i periodi di magra, per solito quelli lontani dagli appuntamenti elettorali, gli analisti politici pestano l’acqua nel mortaio. Ci si diverte a sottolineare le differenze, ideologiche o di programma, interne a questo o quel partito, sottolineandone tensioni e contraddizioni. Ma è evidente che lo schieramento dove se ne trovano di più è quello senza rappresentanti, composto dalla variegata massa dei non votanti.
 
Guardando il dato italiano, si registra che l’affluenza ai ballottaggi di queste amministrative si è fermata al 42%, contro il 54% del primo turno. La metà circa degli aventi diritto non si sono curati di dire la loro sulla scelta del sindaco. Essendo la prima linea dell’amministrazione e dei governi locali, significa che il tasso di disincanto è ormai arrivato a livelli tanto alti quando preoccupanti. Per l’essenza stessa delle democrazia, che non è null’altro se non la rappresentanza della volontà popolare.
 
A Cuneo il dato è ancora più sconfortante. Appena il 36,72% degli aventi diritto si è recato al seggio al secondo turno, poco più di uno su tre. La percentuale più bassa nella storia della città.
 
L’impressione è che alcuni discorsi “giustificazionisti” che vanno per la maggiore lascino il tempo che trovano. Certo, la giornata di sole che ha favorito l’esodo dalla città verso il mare e la montagna non ha aiutato, così come è in parte corretta la ricostruzione effettuata da molti addetti ai lavori: “Si trattava di ballottaggi, duelli riservati ai candidati più votati che lasciano fuori tutti gli altri”. Bene, ma non è che quindici giorni fa, quando i candidati a sindaco erano sette (almeno a Cuneo), ci sia stata la corsa a depositare la scheda nell’urna: al primo turno ha votato soltanto un cuneese su due.
 
Il caso del capoluogo della Granda è piuttosto emblematico, perché la scelta c’era eccome: la continuità (Patrizia Manassero), la svolta a destra (Franco Civallero), quella a sinistra (Luciana Toselli, che tra l’altro si presentava con un progetto alternativo rispetto all’attuale maggioranza), il candidato anti-sistema (Beppe Lauria), il civico (Giancarlo Boselli), la grillina della prima ora (Silvia Cina) e anche il no vax oltranzista (Juan Carlos Cid Esposito). Insomma, ce n’era per tutti i gusti.
 
Eppure un elettore su due (al primo turno) e quasi due su tre (al ballottaggio) ha scelto di non recarsi alle urne, con buona pace della costituzione italiana, che all’articolo 48 sancisce il diritto di voto e recita: “Il suo esercizio è dovere civico”. E non si chiede neanche di essere troppo convinti, ma almeno di recarsi alle urne, nel legittimo diritto di lasciare la scheda bianca o di annullarla scrivendo qualche goliardata - come hanno fatto alcuni nostri parlamentari in occasione dell’elezione del presidente della Repubblica.
 
Ne è passata di acqua sotto i ponti dal 1976, quando il Partito Comunista aveva possibilità concrete di sorpassare la Dc e conquistare il potere. All’epoca, uno dei più grandi giornalisti italiani, Indro Montanelli, scrisse: “È un referendum. Fra quaranta giorni saremo chiamati a scegliere non un partito, e nemmeno un governo, ma un regime. Ecco perché tra direttore di giornale e lettori, dobbiamo fra noi parlarci chiaro, occhi negli occhi…”. Lo slogan “turatevi il naso ma votate Dc” fu decisivo. Di poco, ma la Dc vinse. Oggi quel senso civico, foss’anche in contrapposizione a un avversario, un “nemico da battere a tutti i costi”, non c’è più. Gli elettori, o meglio i non elettori, non sono disposti a turarsi il naso. In alternativa si turano molto volentieri le orecchie, restando indifferenti a ciò che gli accade intorno. Anche, come avvenuto tra il Gesso e la Stura, per l’elezione del sindaco e del Consiglio comunale, la più vicina ai cittadini per antonomasia. La teoria dei sei gradi di separazione, l’ipotesi secondo cui ogni persona può essere collegata a qualunque altra al mondo attraverso una catena di conoscenze e relazioni con non più di cinque intermediari, è devastante se applicata alla realtà comunale. Qui abbiamo buona ragione di ipotizzare che i gradi di separazione tra elettori e candidati, per il 99,9% della base elettorale, non siano più di due. Se non voti per chi conosci per chi devi votare? Facevano davvero tutti schifo? Pure il vicino di pianerottolo e l’ex compagno di classe delle Elementari?
 
Sembra evidente che sulla graduale e inesorabile disaffezione al voto, più che l’attrazione per spiagge e rifugi alpini, abbia inciso la sistematica devastazione della cultura politica italiana iniziata all’inizio degli anni ’90 e proseguita impunemente nel nuovo secolo. Una gran mazzata, in attesa di quella finale, l’hanno data i nuovi mezzi di comunicazione social, immediati e senza intermediazione, che hanno ridotto i leader politici a parlare per slogan tanto diretti quanto banali, riducendoli in alcuni casi a vere e proprie macchiette. La morte delle ideologie si è concretizzata nello spettacolo di partiti con programmi simili, tant’è che oggi si ritrovano al governo tutti insieme allegramente in una grande ammucchiata. Perfino certi nomi, che un tempo sarebbero parsi assurdi, oggi sono la normalità: uno fa il verso allo slogan di chi tifa la nazionale, l’altro a un albergo di lusso, l’altro ancora a una band musicale familista e patriota e chi più ne ha più ne metta. Circostante che non hanno aiutato ad avvicinare la base alla politica, allontanandola anche dalla sua espressione più nobile e virtuosa. Quella che si concretizza, spesso con risorse limitate e tornaconto pari a zero, negli enti locali.
 
Un altro aspetto, forse quello più pregnante, è l’imbarbarimento di una fascia della popolazione. La pagina Facebook dell’edizione online del nostro giornale ne è una cartina di tornasole. Molti di coloro che non si sono recati alle urne non hanno mancato di far sapere le loro motivazioni con commenti al limite della decenza, sotto il post di un articolo che parlava della bassa affluenza alle Comunali. C’è il complottista: “Tutti a leccare mister Goldman Sachs (addirittura personificato per l’occasione n.d.r.); la politologa con smania di legiferare nuovi porcellum: “Senza il 50% dei votanti le elezioni dovrebbero essere annullate”; il deluso: “Comunque si voti, la solfa non cambia”, eccetera.
 
Peccato che, ironia della sorte, l’unico modo per impedire il cambiamento (dalle amministrative alle regionali, passando per le politiche e le europee) è non alzare le terga dalla sedia per recarsi ai seggi. Anche perché, con buona pace del signor bipensiero Luigi Di Maio, solo nella cabina elettorale, purtroppo o per fortuna, uno vale uno. Se resta a casa, vale zero.

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