CUNEO - Calcio, i ricordi di Turini: "Quante risate con i compagni. E quella borsa del Villafranca..."

L'intervista al grande ex bomber estrapolata dall'ultima puntata di "Riunione Tecnica", in cui Christian ha raccontato tanti aneddoti e parlato del calcio dei suoi tempi

Christian Turini con la magli della Pro Dronero (foto da www.acdprodronero-1913.com)

Gabriele Destefanis 11/01/2024 17:47

Gli scherzi da spogliatoio, i compagni più forti, gli aneddoti, i tanti gol fatti. C’è tutto questo e tanto altro nella chiacchierata fatta con Christian Turini nella puntata speciale di “Riunione Tecnica” di lunedì scorso. Il grande ex bomber del calcio dilettantistico cuneese, che ha vestito tante maglie (Cuneo, Fossano, Olmo, Busca, Pro Dronero, Pedona) prima di fare anche un’esperienza da allenatore al Caraglio, è stato ospite di Gabriele Destefanis e Davide Enrici nel primo appuntamento del 2024 della trasmissione dedicata al calcio locale in diretta su Youtube. Sono venuti fuori davvero tanti spunti, riassunti in questa intervista che vi proponiamo. QUI l'ultima puntata di "Riunione Tecnica".
 
Christian, raccontaci il tuo rapporto attuale con il calcio. Segui ancora?
“A dire la verità poco. Beccacini mi ha invitato molte volte a vedere la Pro Dronero, ma non sono mai riuscito ad andare. Vado ogni tanto a vedere il Pedona, perché è qua vicino a casa, e devo dire che ho visto cose interessanti. Mi ha fatto effetto vedere un ragazzo che quando ho smesso era un pulcinotto, e ora è un bel giocatore, Gabriele Maccario. Poi ho apprezzato un Marco Dalmasso cresciuto tanto, che adesso gioca da punta centrale come se lo avesse sempre fatto, e quel bisonte di Pepino che purtroppo mi sono perso per pochi anni, perché con lui avrei fatto un sacco di gol”.
 
Dopo l’esperienza al Caraglio non hai neanche più allenato…
“Dopo la nascita di mio figlio Giacomo mi sono dedicato alla mia splendida famiglia, e sono contento così. Poi sai, le sere di allenamento da giocatore ogni tanto le puoi anche saltare, da allenatore no (ride, ndr).
 
E tu qualche allenamento lo saltavi, vero?
“Verso la fine della carriera devo dire di sì. Avevo sempre qualche problemino, quelli che vengono con l'esperienza: però poi i miei compagni mi facevano la diagnosi e dicevano sempre che la domenica potevo giocare. E io giocavo!”.
 
Certo, i tuoi compagni ti volevano in campo perché segnavi sempre: li hai contati i gol che hai fatto nella tua carriera?
“Anche qua i miei compagni mi prendevano in giro, soprattutto Vaira. Perché quando mi chiedevano quanti gol avevo fatto e io rispondevo, dicevano che contavo anche quelli in allenamento. ‘Certo, sono sempre gol, valgono’, rispondevo io. Comunque, mal contati, credo di averne fatti più di 300”.
 
Riavvolgiamo il nastro della tua carriera partendo dagli inizi. Hai esordito giovanissimo al Cuneo.
“Sì, avevo 16 anni, e il Cuneo era in Interregionale. Poi l’anno dopo, a 17 anni, alla prima patita giocata ho fatto subito doppietta. Tutto bellissimo, anche se quando sei giovane non usi la testa come dovresti. Sembra una frase retorica, ma è così. Per me il calcio è sempre stato un divertimento, probabilmente se ci avessi messo più attenzione e abnegazione avrei potuto fare di più”.
 
Sei stato anche nella Rappresentativa Nazionale con ragazzi poi diventati campioni.
“Sì, sono stato a Coverciano con la Nazionale Under 15 dei professionisti. C’era anche Fantini. Quando mi hanno chiamato, mi sono sentito forte, e anche un po’ figo. Poi ho avuto la fortuna di vedere in allenamento Totti e Morfeo, e mi sono detto: ‘Aspetta un attimo, forse ne manca ancora un pochettino’”.  
 
Uno che aveva calcato campi importanti tu ce l’avevi in casa, visto che tuo padre è stato calciatore, giocando anche nel Milan di Rocco con Rivera. Come è stata crescere in una famiglia così?
“Il cognome che porto poteva anche essere pesante visto quello che aveva fatto mio padre, ma io sinceramente non ci ho mai fatto caso. Anche perché quando ero piccolo e arrivavo a casa dalle partite, lui mi chiedeva: ‘Allora, cosa hai fatto oggi, oratorio?’. Questa è stata la mia infanzia (ride, ndr). Scherzi a parte, non mi ha mai turbato questa situazione”
 
Quali credi che siano le differenze tra il tuo calcio e quello di oggi?
“Oggi ci sono tanta più fisicità e velocità a discapito della tecnica. Una volta si insegnava di più la tecnica di base, a partire dallo stop. Il calcio di oggi si basa meno su quello, è talmente fisico e veloce che anche i giocatori di grande qualità fanno più fatica a fare belle giocate: per questo si vedono sempre meno dribbling o tunnel, per esempio. Anche i più bravi sbagliano se si viaggia a certi ritmi, è normale. Oggi si vedono tante partite in cui si tira pochissimo in porta. È un calcio più atletico e fisico, però resta sempre bello”.
 
Tra tutte quelle in cui hai giocato, c’è una squadra a cui sei rimasto più legato?
“Io mi sono trovato bene in tutti i posti dove ho giocato, ma devo dire che la Pro Dronero mi è rimasta nel cuore. Mi faceva impazzire, mi piaceva da morire e mi dispiace di non aver mai vinto nulla lì, anche se ci siamo andati sempre vicino. Mi ricordo che una volta, quando c’era ancora Fontana come presidente, andai da lui chiedendogli di non fare pagare i miei amici che sarebbero venuti alla partita. ‘Quanti sono?’, mi chiese. ‘Eh, una ventina’, risposi io. E non li fece pagare! In quegli anni facevo anche un po’ la prima donna, i miei compagni mi sopportavano. Facevo di tutto per farmi voler male, ma più facevo così e più loro mi volevano bene. Però a Dronero tutti ti ridimensionavano e ti facevano stare con i piedi per terra. Una volta da fuori mi chiamarono tre signori, io mi avvicinai tutto orgoglioso aspettandomi dei complimenti, e questi mi dissero: ‘Va a curi va, piciu!’. Dronero era così: se giocavi male te lo facevano notare, ed era giusto perché pagavano il biglietto. Io non me la sono mai presa, mi piaceva davvero tanto stare lì”.
 
Quindi da giocatore eri un po’ rompiscatole?
“Ero davvero un ‘rugnino’. Pensa che quando ero all’Olmo, da molto giovane, diventai capitano. In quella squadra c’erano pezzi da novanta come Burgato, che aveva giocato in serie A, Marabotto, Sarale, e altri giocatori di qualità ed esperienza. Ma ero talmente rompiscatole, che ad un certo punto mi dissero: ‘Guarda, prenditi sta fascia perché ci hai rotto’. Ricordo ancora la prima partita da capitano, con il Rosta. Vinco il sorteggio e dico: ‘Palla!’. Giorgio Giraudo mi guarda indignato e mi fa: ‘Vuoi fare il capitano e non sai neanche che chi vince il sorteggio sceglie il campo?’. Mi spiegarono che dovevo valutare il campo da prendere in base al sole per il nostro portiere Sarale. Io risposi che Sarale poteva mettere il cappellino, e via!”
 
Di tutti i compagni con cui hai giocato, qual è stato il più forte?
“Non so se è stato il più forte, perché ho giocato davvero con giocatori fortissimi. Ma quello che mi piaceva di più era D’Errico. Ho giocato con lui a Fossano. Era un ‘rugnino’ come me, ma l’ho visto fare la differenza talmente tante volte. Aveva tutto, forse gli mancava il colpo di testa, ma tanto non gli serviva. A Novi Ligure gli ho visto fare una cosa incredibile: avevamo preso gol a due minuti dalla fine, lui è partito dal calcio d’inizio a metà campo, ha scartato tutti e ha tirato all’incrocio dei pali. Come all’oratorio”
 
Quello che ti ha fatto fare più gol?
“Peppo Boscolo, senza dubbio. Con lui avevo un’intesa pazzesca. Lui aveva una gran qualità: giocava di prima e ti metteva la palla in maniera perfetta. Io lo sapevo prima e partivo, e la palla mi arrivava davanti alla porta. Verso la fine della mia carriera, Carlo Dutto aveva capito che doveva fare così con me: io andavo piano, ma sapevo mettere quelle palle di prima. Lui era scaltro, partiva prima e si trovava in porta”
 
Quello che ti ha fatto ridere di più nello spogliatoio?
“Anche qua ce ne sarebbero tantissimi da dire. Ma quello che mi ha fatto divertire di più è Daidola, che adesso è allenatore. Nello spogliatoio mi faceva sdraiare dal ridere. Mi ha insegnato tante cose come giocatore, diverse malizie da attaccante”.
 
Veniamo agli allenatori. Che rapporto avevi con loro?
“Ho avuto sempre un bel rapporto con tutti. Posso dire di essere riuscito ad imparare qualcosa da tutti i tecnici che ho avuto. Perché i giocatori sono tremendi nel giudicare un allenatore. Ma in realtà se vuoi, qualcosa te lo insegnano tutti. Ho discusso praticamente con ogni allenatore che ho avuto, ma era un modo di discutere costruttivo, fatto con rispetto, che finiva lì. E poi la domenica si andava insieme compatti a giocare le partite. Però gliene combinavo...”.
 
Per esempio?
“Li facevo impazzire, perché gli mandavo sempre i giovani. Quando arrivava un ragazzino delle giovanili ad allenarsi con noi, io alla fine dell’allenamento gli dicevo: ‘Guarda che secondo me domenica giochi. Il mister ti ha visto bene, mi ha detto che vuole parlarti’. Questi andavano e bussavano alla porta dell’allenatore, che non sapeva perché fossero lì. Un allenatore ad un certo punto mi disse: “Christian, la pianti di mandarmi i ragazzini?”
 
A proposito di aneddoti. Quello con Paolo Tappero è da raccontare.
“Tappero, che giocatore. Giovanili del Vicenza, era uno a cui potevi sparare, ma non faceva una piega e ti stoppava il pallone perfettamente. Una forza della natura. Il discorso era questo: lui faceva tutta l’azione, metteva la palla e io facevo gol da due metri. Poi andavo da lui a esultare e dicevo: ‘Grande Pedro, questo gol è tuo! Però domani sul giornale c’è di nuovo il mio nome!”. Guarda, sui compagni ci sarebbero un sacco di aneddoti. A volte mi rimproveravano che non correvo, io rispondevo dicendo che ero lì per far vincere anche a loro il premio partita, mica per correre. Il bello del calcio sono le amicizie che ha lasciato a distanza di tempo. Io ancora mi vedo e mi sento con tantissimi miei ex compagni. Anche se una volta pensavano che mi fossi venduto una partita (ride, ndr).
 
Cosa è successo? Racconta.
“Avevamo perso una partita di fine campionato a Villafranca, che contava poco perché noi eravamo già ai playoff. Nello spogliatoio iniziarono a farmi battute sul fatto che avessi preso dei soldi per farli vincere. Poi anni dopo mio padre andò ad allenare proprio il Villafranca e io, che dovevo fare un trasloco, presi il suo borsone del Villafranca per metterci della roba. Una sera i miei compagni vennero a casa mia e in una stanza trovarono quel borsone. E partirono: ‘C’erano dei soldi lì dentro, hai venduto quella partita!’. ‘Sì, però ormai li ho spesi, mi spiace’, risposi io. Quante risate! Ci scherziamo ancora adesso”
 
Sappiamo che sei un ottimo giocatore di tennis: il Turini calciatore lo conosciamo, ma com'è il tennista?
“Mi dicono che corro tanto, pazzesco! Le prime volte che me lo dicevano, senza conoscermi, volevo registrare quelle parole e farle sentire a quelli del mondo del calcio che mi dicevano che invece ero un pelandrone. Anche se un po' avevano ragione, soprattutto alla fine”.
 
Perché?
"Gli ultimi anni andavo davvero piano. Anche perché avevo sempre la pubalgia. Ero al Pedona e Macagno mi faceva giocare sempre, comunque. Mi diceva che con la sola mia presenza avrei tenuto impegnati un paio di difensori. Io una volta gli risposi: "Ok, va bene, però l'ultima partita l'arbitro mi ha chiesto se per favore mi potevo spostare perché era da un quarto d'ora che ero nello stesso posto! Lì ho capito che forse era il momento di smettere  (ride, ndr).

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