MONDOVÌ - “Balonà”, tutte le parole del calcio di una volta. E forse di domani

Il “bròch”, la “min-a”, la “tampa” e molto altro. Nel dizionario raccontato di Alessandro Borgotallo un viaggio tra i modi di dire piemontesi sullo sport di provincia

Andrea Cascioli 30/07/2023 19:30

Esiste in piemontese un repertorio di termini e modi di dire legati al calcio, sovente ironici, che chiunque abbia mai preso a calci un balon, foss’anche solo in un cortile condominiale o in un giardinetto, ricorda senza neanche sapere da quanto tempo lo ricordi. Meno che mai, da chi possa averlo appreso: l’allenatore, il papà, un fratello maggiore, uno spettatore buontempone. Frasi come “tirare una min-a”, “farsi una tampa”, “essere un bròch” hanno l’effetto di una madeleine, richiamando alla memoria quell’incredibile tiro nel sette dalla tre quarti del campo (magari provato per caso, e mai più ripetuto), o quel gol mangiato davanti alla porta vuota in maniera altrettanto inspiegabile.
 
Alessandro Borgotallo, avvocato e vice procuratore monregalese, scrittore per diletto, le ha raccolte in una sorta di “dizionario raccontato”, intitolato Balonà e pubblicato da Nerosubianco. Lo spunto, rivela, è venuto da dove meno poteva aspettarlo, trattandosi di un repertorio in piemontese: sua figlia Emilia. “I miei figli, come me, sono entrambi portieri. Perciò la domanda che gli rivolgo sempre è: sul gol, potevi farci qualcosa? Questo la dice lunga sulla mentalità dei portieri” spiega l’autore. In quel sabato novembrino di due anni fa, la risposta di Emilia fu lapidaria: “no, era una min-a”. “Mi si è aperto un mondo, sentendo una ragazzina del 2010 usare un’espressione che non le avevo mai insegnato”: da lì, l’idea di mettere assieme un po’ di espressioni vernacolari che si usavano nei decenni passati sui campi da calcio e che evidentemente hanno contagiato anche le nuove generazioni.
 
Nel lavoro lo ha assistito il professor Nicola Duberti, suo conterraneo (di Viola, per la precisione) e studioso tra i più qualificati in materia, titolare del laboratorio di piemontese dell’università di Torino che a breve diventerà un vero e proprio esame accademico. Perché così come non è semplice scrivere in piemontese - quasi nessuno lo ha mai imparato, e di certo non a scuola - allo stesso modo occorre un certo rigore filologico per districarsi tra un termine e l’altro: cosa differenzia una min-a da una catramin-a, o magari da una grija? E un bròch da un più funesto brocasson? Tra il serio e il faceto, Borgotallo ha interpretato le sfumature lessicali col piglio del giurista, ma senza perdere neanche un po’ di verve.
 
Il risultato è un volumetto in 22 voci scritto in modo divertente e divertito, alla maniera dei ritratti da Bar Sport di Stefano Benni. Imprescindibile per lo sportivo qualunque, ma consigliato anche alle mogli, ai genitori o ai figli che con pazienza sopportano le fisime di tanti appassionati e che a questa passione non compresa hanno visto sacrificare innumerevoli domeniche. Non mancano, al fianco dei motti più noti, le autentiche rarità come “tirè ‘n pèt a la lun-a”, un’espressione che evoca immagini ariostesche: “La devo al mister Piero Curti, che la utilizzava con i giovani calciatori: quando arrivavi infervorato con l’idea di fare il tiro del secolo ma la prendevi proprio male, un tiro che veniva molle e sghembo. Lòn lì l’è un tir? No, l’è un pèt a la lun-a!”. Per non parlare della mitologica figura di “Sergio ‘l fré”, ovvero “il fabbro”: archetipo platonico del pedatore ineducato, colui che pesta sul pallone come il fabbro farebbe sull’incudine, appunto. A quale calciatore della domenica, del resto, non è capitato di incrociarne su qualche “camp ëd patate”? “Veri e propri campi da semina, dove cresceva il tarassaco sulle ali, con la terra battuta e la calce a segnare le righe. Oggi abbiamo i sintetici, giochiamo sulla neve e sul ghiaccio, una volta era più difficile giocare a calcio ed era doppiamente difficile quando pioveva e il campo diventava ‘pauta’”.
 
Il libro è un omaggio all’amicizia e allo sport vissuto per divertimento, cioè nella sua essenza autentica, ma è anche una “capsula della memoria” consegnata nelle mani dei più giovani. Perché? Borgotallo lo spiega riprendendo una metafora: “Oggi abbiamo i jet superveloci, ma in città ci muoviamo ancora con la bicicletta. L’italiano - e più ancora l’inglese - servono per comunicare da New York a Milano, ma se devi parlare a una persona nata e cresciuta a Mondovì, la chiave per aprirla è il piemontese”. Lo conferma il professor Duberti, che nel suo laboratorio di piemontese accoglie ogni anno studenti stranieri, dalla Catalogna al Giappone: “All’estero non esiste l’idea del dialetto come lingua ‘inferiore’, un concetto che solo noi italiani abbiamo interiorizzato. Una ragazza mi disse che era stupita del fatto che non si trattasse di una varietà di italiano, ma proprio di un’altra lingua”. Insegnando una seconda lingua ai bambini, si attivano in loro una serie di competenze neurolinguistiche che altrimenti non si trasmetterebbero: “Non è quindi solo questione di mantenere un patrimonio, ma anche di allenarsi. Come quando si va in bicicletta, appunto”.

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