Riceviamo e pubblichiamo.
Egregio direttore,
ho notizia del convegno che si tiene a Moretta sulle radici, le tradizioni e il futuro di una lingua identitaria, il piemontese. Se si ascolta “quello che dicono” si constata che vi sono diverse sfumature che arricchiscono questa lingua e conducono ad una fonte istintiva, il dialetto. È una iniziativa culturale encomiabile, da tempo non se ne parlava. Infatti, sull’argomento dei dialetti che io ricordi in quel di Cuneo bisogna risalire all’anno 2009 per merito di un dibattito (a cui ho assistito) proposto dal giornalista Giampiero Ferrigno.
Quello dei dialetti è un tema che mi ha sempre appassionato: mi si permetta pertanto alcune considerazioni. Sono originario di Milano e da sempre nell’intimità di casa, spontaneamente parlo il dialetto milanese. Sono un fautore della loro riscoperta e del loro rilancio. Ma ritengo che portarne l’insegnamento nelle scuole, come propongono taluni, è la negazione stessa della continuità di vita dei dialetti. Gli idiomi locali hanno validità proprio perché nascono dal popolo e con il popolo e vengono tramandati dai genitori ai figli attraverso la consuetudine e il legame personale, contribuendo così, da una parte, alla difesa di un patrimonio culturale ricchissimo che cambia anche con variazioni e sfumature diverse da territorio a territorio e, dall’altra parte, alla crescita della lingua italiana che può realmente, con la sua complessità e ricchezza di vocabolario, rappresentare le varie gamme del sentire e delle espressioni umani. Il dialetto non si insegna, ma si impara dai nonni, dai genitori e dalla gente, non da professori né da maestri. Il dialetto si impara se ci si sente parte di un mondo, seppure più piccolo, ma con radici profonde, fatto di valori popolari, di conoscenze antiche.
Ma come mai oggi si sente la necessità di riappropriarsi della nostra identità? Per ragioni storiche e politiche si sente oggi in Italia l’esigenza di mettere un argine al vuoto ideale e alla crisi portata dalla globalizzazione. Il vuoto ideale ha provocato la caduta dei valori tradizionali; c’è rimasto ben poco spazio per le idee e per le differenze di tradizioni e di cultura. E pensare che nella difesa della memoria collettiva della nostra comunità c’è il senso del legame che tiene assieme generazioni diverse succedutesi nel tempo sullo stesso territorio. Il concetto di Patria si afferma per cerchi concentrici: nello Stato, ambito di appartenenza dell’intera collettività nazionale, nelle città e nei paesi, nella regione. Se ne deve concludere che fuori da questo concetto, per chi crede veramente nell’identità e nei valori della nostra terra è un’illusione pensare di riaffermare le tradizioni culturali e di salvare i dialetti.
Purtroppo però, non ci identifichiamo quasi più nella lingua italiana (la grammatica, l’ortografia, la sintassi, la storia e la geografia sono andati a farsi benedire; siamo invasi da anglicismi inutili che la maggior parte di noi non capisce), figurarsi come possiamo mantenere gli idiomi locali.
Malgrado ciò dobbiamo intraprendere ugualmente iniziative generali di riscatto. Per favorire le tradizioni dialettali si organizzino la diffusione letteraria e manifestazioni ludiche delle opere in dialetto di tanti autori un tempo celebrati; si propongano sulle TV locali le commedie dialettali già rese comprensibili in tutta Italia da interpreti straordinari come Erminio Macario, Gilberto Govi, Edoardo De Filippo, Cesco Baseggio, Edoardo Ferravilla, Gigi Proietti.
La parlata dialettale è un mezzo immediato e spontaneo di comunicazione, è genuinità, è solidarietà sociale, caratteristiche che hanno un comune afflato ideale, che fanno di tante popolazioni locali un popolo, quello italiano appunto.
Ringrazio per la considerazione, distintamente.
Paolo Chiarenza (Busca)