CUNEO - Il racconto di un ricoverato per Covid all’ospedale di Cuneo: ‘‘Grazie a chi ha rispettato la mia paura’’

L’ex paziente ha ringraziato i sanitari sul gruppo Sei di Cuneo se: “Non conosco i volti delle persone che si sono prese cura di me, trattandomi come un parente”

Redazione 01/01/2021 20:17

 
Sul gruppo Facebook “Sei di Cuneo” è stata pubblicata nella serata di oggi, venerdì 1 gennaio, la toccante testimonianza del signor Lorenzo Marino, un ex degente dell’ospedale Santa Croce e Carle che ha voluto ringraziare i medici, gli infermieri e tutte le persone che si sono prese cura di lui nei giorni difficili dello scorso novembre, quando era stato ricoverato perché affetto da Covid-19 in forma grave.
 
Riportiamo di seguito la sua lettera aperta al personale del nosocomio cuneese:
 
Ho avuto i primi sintomi l’undici novembre, sono stato a casa fino al 23 poi, dopo la terza notte consecutiva di delirio per la febbre altissima e la mancanza di ossigeno, mia moglie ha chiamato il 118. Sono arrivati dopo pochi minuti, mi hanno visitato e comunicato che mi avrebbero dovuto portare all’ospedale.
 
Certo, visto tutto ciò di cui si sente parlare in tv: la solitudine, la difficoltà di respiro, i primi minuti non sono stati facili. Il milite sull’ambulanza cercava di rincuorarmi, loro sanno che abbiamo paura, ne hanno già vista tanta. Mi aggiornava sul percorso: “Sta tranquillo guarda siamo già alla rotonda del Ponte Nuovo”. Mi ha commosso, all’arrivo l’avrei abbracciato ma, ovviamente, non potevo. Per tutto il percorso ho immaginato ciò che avrebbe potuto attendermi al pronto soccorso: confusione, concitazione, lunga attesa... la mia barella ha attraversato le tende militari per giungere al pronto dove ho avuto subito una sensazione di ordine, pulizia e grande organizzazione. Dopo due minuti ne avevo tre intorno alla barella: un medico e due infermieri. Uno mi prendeva il sangue dal polso, l’altro mi auscultava la schiena, il terzo misurava la pressione. Tutti, con grande delicatezza, cercavano di rassicurarmi. Loro sanno che abbiamo paura, ne hanno già vista tanta e continuano a rispettarla, come non tutti farebbero.
 
La diagnosi è stata rapidissima: Covid con polmonite bilaterale. Mi hanno parcheggiato, assieme ad altre persone, in un corridoio attrezzato con l’impianto di erogazione dell’ossigeno. Ho pensato: è qui il “tappo”, chissà quanto ci starò. Manco per niente, dopo pochi minuti mi hanno portato al Carle. Altra ambulanza, altro milite attrezzato ad affrontare l’altrui timore. Al Carle erano già lì che mi aspettavano in due: una spingeva la sedia a rotelle, l’altra teneva la bombola di ossigeno. Anche lì, agli infettivi, ho percepito grande ordine, professionalità e organizzazione. Era tarda sera ma mi hanno fatto avere subito un pasto caldo. I medici mi hanno comunicato onestamente la situazione: “Occorre attendere 48 ore per vedere cosa succede, non c’è una cura specifica, somministriamo ossigeno, cortisone ed eparina”.
 
La mia saturazione era molto bassa, la prima notte non è stata facile. Nei nove giorni di degenza ho avuto un ottimo compagno di stanza, miglioravamo gradualmente tutti e due, ad ogni riduzione di erogazione ossigeno era una festa. La nostra graduale guarigione era ovviamente dovuta alle cure, alla fortuna, ma, sicuramente, anche alla grande fiducia nelle persone gentili e professionali che si sono prese cura di noi, che gioivano sinceramente ai nostri progressi, ai loro modi delicati. Sono convinto che la componente psicologica nell’evoluzione della degenza sia fondamentale.
 
Di notte si sentiva il rantolo dei malati più gravi, la disperata ricerca di ossigeno. La mattina, in un modo o nell’altro, si sapeva com’era andata la nottata, ogni tanto qualcuno “mancava all’appello”, a volte persone molto più giovani di me. Non conosco i volti delle persone che si sono prese cura di me, trattandomi a volte come un parente stretto, e ciò mi duole molto. Vi voglio dire che avere a disposizione un ospedale di questo calibro è un privilegio raro. Ma questo lo sapevamo già.

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