MONTEROSSO GRANA - La valle Grana riscopre le cave da cui venivano estratte le lose per coprire i tetti delle chiese piemontesi

A palazzo Santa Croce la mostra fotografica sulle 'laouziere' tra San Pietro di Monterosso e Frise, attive da fine '600 agli anni '80 del secolo scorso

Samuele Mattio 11/12/2021 08:33

Oramai sono state abbandonate da oltre trent’anni, ma per tre secoli le cave di ardesia di Monterosso hanno rappresentato un nucleo fondamentale nella vita lavorativa e sociale della valle Grana. Dalla fine del ‘600 le ‘laouziere’, tra San Pietro e Frise, diedero lavoro a intere famiglie e materiale per la costruzione delle strutture tradizionali dell’architettura alpina sud-occidentale.
 
La losa di san Pietro era molto ricercata perché permetteva di realizzare pietre molto sottili, quindi mantenere una portanza importante con un peso e uno spessore relativamente bassi, utili per coprire i tetti. Con le pietre della valle Grana venivano coperti i tetti delle maggiori chiese del Piemonte, oltre al Cuneese, Torino, Asti e Alessandria. Nel tempo molti sono stati rifatti, ma ancora oggi molti edifici religiosi, tra cui alcune chiese di Caraglio e quella di Monterosso conservano ancora le pietre originali.
 
Nel 1984 le cave sono state abbandonate a causa della maggior attenzione alla sicurezza sul lavoro e oggi restano soltanto le tracce dell’attività estrattiva passata, come i binari e resti della teleferica che serviva per il trasporto del materiale a valle. Non lontano, attraverso un sentiero nel bosco, si arriva alle borgate in pietra, oggi lasciate in balìa degli eventi atmosferici, ma un tempo abitate dai minatori delle cave. Le lastre di ardesia sono il mezzo attraverso cui l’uomo ha modellato il paesaggio: muri di contenimento e selciati che collegano le cave alla valle sono realizzati con gli scarti di produzione. La matrice paesaggistica è prettamente naturale: la natura, di anno in anno, sta lentamente riassorbendo l’intero complesso.
 
C’è però chi prova ad opporsi all’incedere dell’oblìo. Si tratta del gruppo di ricerca storica dell’Ecomuseo Terra del Castelmagno e l’associazione La Cevitou, che da anni dedicano studi e progetti al sito.
 
L’anno scorso è nato il progetto “Pèire que préiquen”, dall’occitano “Pietre che parlano”: un processo che intende valorizzare le cave e costruirne una nuova identità partendo dall’arte. Parte del progetto quest’estate esposto nel museo Terra del Castelmagno, da sabato scorso (4 dicembre) trova spazio a Palazzo Santa Croce, nel centro storico di Cuneo. All’interno degli spazi espositivi, oltre a una mostra fotografica curata dal gruppo di fotografia HAR e un cortometraggio di Andrea Fantino, con materiali di Paolo Ansaldi, Sandro Marotta e filmati storici. La mostra sarà fruibile fino al 9 gennaio ed è visitabile il sabato e la domenica. “In questo periodo di pandemia la montagna è riuscita a restituire quel senso di libertà perduto, ora in qualche modo è la città a restituire qualcosa”, spiega Barbara Barberis, coordinatrice dell’Ecomuseo Terra del Castelmagno.
 
Ober Bondi, presidente dell’associazione progetto HAR, ha curato la mostra fotografica: “Quando siamo stati invitati dall’Ecomuseo per partecipare a questa iniziativa abbiamo pensato di andare a fare un sopralluogo perchè non conoscevamo il territorio e abbiamo scoperto con nostra meraviglia quante cose c’erano da raccontare”. “Una parte della fotografia è la memoria, quello che rappresenta in quel preciso momento - prosegue -: ci siamo emozionati pensando a quello che avevano vissuto i lavoratori in queste cave con la difficoltà del territorio e la durezza del lavoro”. La sorpresa è stata duplice: “Dopodiché siamo entrati nelle cave e abbiamo avuto un’altra enorme emozione perché ci siamo trovati a rappresentare uno scenario che a prima vista sembrava grigio, ma che poi con la luce del giorno ha mostrato dei colori fantastici. La seconda parte la si può dunque definire ‘Scrivere con la luce’. Infine abbiamo fatto un reportage su quello che si spera possa essere il futuro”
 
“La ricerca storica si è sviluppata a partire dal 2013 - riprende Barberis, dell’Ecomuseo del Castelmagno -. Abbiamo scelto di raccontare un pezzo di montagna che ha dato vita attraverso il lavoro degli artisti. Oltre ai contenuti in esposizione a Cuneo abbiamo anche realizzato una serie di 24 pannelli che attualmente sono posizionati nella scalinata di fianco alla chiesa di San Pietro, dopodiché ci sono contenuti audio-video sui cavatori e sugli alberi genealogici dei cavatori e delle loro famiglie. Al museo di San Pietro c’è anche un quaderno di un cavatore che ha messo per iscritto le varie tecniche usate nel corso dei secoli”.
 
La montagna è anche scambio. “Durante l’inaugurazione Dario Anghilante ha raccontato un aneddoto relativo all’inizio del ‘900 - continua Barberis -. Un ‘lausatie’ venne a Cuneo per posare le lastre per i marciapiedi. Arrivato all’ultimo si rese conto che l’ultimo pezzo era più lungo del necessario, ma i cavatori non erano mastri realizzatori di finiture, semplicemente estrattori. Ad un certo punto si avvicinò un alpino originario di Barge, che gli spiegò come tagliare la pietra e il lavoro venne concluso secondo arte". 
Da luogo di lavoro e attività produttiva, le antiche cave diverranno oggetto di ricerca e sperimentazione, proiettate verso uno scenario futuro in cui saranno luogo di fruizione turistica e produzione artistica, nei princìpi della sostenibilità e della tutela del paesaggio e del territorio.
 
Le cave sono raggiungibili partendo dal paese di San Pietro, attraverso le borgate di Combetta e Fugirus, dove vivevano i cavatori. Una volta raggiunte le cave è possibile proseguire a piedi fino a raggiungere la strada carrabile che, tornando verso il paese, conduce all’opera di land art “Sulla via del Ritorno” dell’artista Johannes Pfeiffer.
 
“Il sentiero è sempre stato fruito. Un tempo veniva utilizzato per il lavoro e lungo il tragitto ci sono diversi pannelli che spiegano la storia di questi luoghi, che hanno avuto un ruolo importante anche durante la Resistenza. Sia la Combetta che Fugirus sono stati luoghi dove i partigiani si sono rifugiati e i nazifascisti hanno lasciato molti segni nella popolazione. Sono luoghi che vale la pena visitare, così come la mostra”, conclude Barberis.

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