VALMALA - “Neve rosso sangue”: un film tributo alla Resistenza e alla vita

Il lavoro di Daniel Daquino, regista e musicista, racconta l’eccidio di Valmala in cui i soldati della Rsi uccisero nove partigiani

Francesca Barbero 03/07/2022 15:09

Pubblicato in origine sul numero del 23 giugno del settimanale Cuneodice - ogni giovedì in edicola:
 
“Neve Rosso Sangue” di Daniel Daquino è un film del 2015 che racconta l’eccidio di Valmala, dove il 6 marzo 1945 furono uccisi nove ragazzi partigiani. A parte l’attore Roberto Zibetti, che ha recitato in film come “Io ballo da sola” di Bertolucci”, “Non ho sonno” di Dario Argento, “Pasolini” di Abel Ferrara, tutti gli altri attori sono musicisti della scena musicale cuneese e torinese.
 
Oltre a suonare nella tua band, I Cani Sciorri, sei anche regista. E educatore.
“Sì, oltre alla musica, l’altra mia grande passione è il cinema. Fin da piccolo facevo filmini rubando la Super 8 ai miei genitori e, di nascosto, consumavo le pellicole. Sono sempre stato appassionato di cinema e affascinato dall’idea di provare a fare cinema. Prima di questo film avevo già fatto dei videoclip per la mia band e dei cortometraggi con i bambini delle scuole”.
 
Perché un film sull’eccidio di Valmala. È solo un interesse per la storia o hai una tua storia famigliare legata a quei fatti?
“Sono cresciuto nei ‘90 e faccio parte di una generazione che ha avuto la fortuna di conoscere la resistenza fin dalle elementari perché in quegli anni molti partigiani erano ancora vivi e le maestre organizzavano incontri per ascoltare i loro racconti. Da piccolo, poi, mi piacevano i pirati, e i partigiani che si ribellavano sulle montagne mi sembravano molto simili. Quindi l’amore per la resistenza è nato quand’ero un bambino. Poi, crescendo, è maturato, insieme alla consapevolezza, alla documentazione e all’essere antifascista. C’è anche l’aspetto famigliare perché l’eccidio l’ho conosciuto negli anni ‘80, durante la festa del santuario di Valmala. Erolì con i miei genitori e i miei nonni e ricordo, avrò avuto 8 anni, di aver guardato la lapide davanti al Santuario con i nomi dei nove partigiani. Ricordo che non riuscivo a capire, nella mia innocenza di bambino, il motivo per cui avessero ucciso dei ragazzi davanti a una chiesa, luogo sacro per eccellenza come mi era sempre stato detto.
Inoltre, durante la preparazione del film ho chiesto a mia nonna di parlarmi del tenente “Pavan” e lei è scoppiata a piangere, di colpo. Non avevo  mai visto mia nonna piangere. Dopo tutto quel tempo le si è accapponata la pelle soltanto a sentirne il nome. E ci ha raccontato una cosa che in famiglia nessuno sapeva: “Pavan”, che era con la sua amante, le aveva puntato una pistola alla testa perché aveva bisogno della stalla. Mia nonna aveva solo 16 anni”.
 
Questo è il tuo primo film.
“Sì, da sempre ho il sogno di raccontare la storia del partigiano “Lulù”, francese che ha combattuto nella Langa di Dogliani. Ho fatto tantissime ricerche e ricostruito tutta la sua vita e i suoi mesi di lotta ma è un progetto complesso perché bisogna ricostruire diciassette mesi di guerra. Così ho deciso di partire con un corto, invece del lungometraggio, sempre sui partigiani e sulla resistenza, anche per capire se si riusciva a fare un film del genere. È un lavoro di documentazione e ricostruzione enorme. Io sono meticoloso e nella ricostruzione tutto deve essere perfetto. Ad esempio ho avuto diverse difficoltà nella ricerca di armi e divise”.
 
Quindi c’è anche una ricostruzione filologica da quel punto di vista. Un recupero della storia a 360°.
“È un lavoro enorme. Le riprese sono durate due settimane ma la preparazione del film è durata cinque anni. Se racconto una storia vera deve essere inattaccabile dal punto di vista storico, dei costumi e della ricostruzione della fiction. Deve essere tutto perfetto proprio perché è una storia vera. Conoscevo Angelo “Edelweiss”, uno dei partigiani sopravvissuti, ancora vivo durante la preparazione e le riprese del film. Gli facevo correggere ogni stesura della sceneggiatura e lui, in ogni correzione, si firmava “Edelweiss”. Non potevo certo romanzarla, come a volte il cinema fa”.
 
A parte Roberto Zibetti, gli altri attori sono amici musicisti che hai coinvolto. Stare sul set è come stare sul palco?
“Ho coinvolto gli amici anche per una questione economica, trattandosi di un film indipendente. Quando li ho chiamati per spiegare il progetto, sono stati entusiasti di prenderne parte sia per la causa sia per l’occasione di provare a girare un film. Ho scelto amici musicisti perché avevo bisogno di naturalezza davanti alla macchina da presa (quando la punti in faccia a una persona, quella non è mai naturale anche se vorrebbe esserlo. I muscoli del volto si contraggono e irrigidiscono ed è una cosa che si nota) e di un minimo di teatralità nella recitazione. E i musicisti, abituati a stare sul palco, a mettersi in mostra e ad essere anche un po’ narcisi questa caratteristiche le hanno. Un musicista sul palco si alimenta degli occhi addosso e non si spaventa dell’occhio digitale che gli viene puntato contro in un film. Nessuno di loro aveva mai recitato, se non nelle recite scolastiche, e nemmeno io avevo mai girato un film. È stata una scommessa vincente”.
 
Ed è anche una fotografia di parte della scena musicale cuneese.
“Sì, è una buona fotografia in questo senso. Ci sono Paolo Bonetto (Uovatomiche), Pietro Parola (La Macabra Moka), Alberto Cornero (The Glad Husbands e Ape Unit), Simone Rossi (Space Paranoids), Francesco Matera (I Foletti della Foresta), Emilio Mannari e Francesco Rattalino (Captain Caveman), Marco Tealdi (Sharon e i Moderni, Linguamano e Domino Teppa). E poi i cantautori Matteo Castellano, Davide Di Rosolini e Deian Martinelli. Questi ultimi due in rappresentanza della scena musicale torinese”.
 
E la colonna sonora?
“A parte il primo pezzo le musiche sono tutte di Paolo Spaccamonti, musicista e amico torinese. Avevo individuato nei brani del suo primo disco la colonna sonora ideale per dare al film un’anima rock, anacronistica con gli anni ‘40. Il primo pezzo, invece, è dei Refused. Al Nuvolari giocai a calcetto con il cantante Dennis Lyxzen. Così gli ho scritto, volevo aprire il film con quel brano, e mi ha risposto di contattare l’etichetta per i diritti. Ma i costi erano alti così l’ho ricontattato spiegandogli il film e il suo significato. Credo che Dennis abbia abbracciato il messaggio antifascista del film e che sia intervenuto a modo suo sull’etichetta per farci ottenere un prezzo accessibile alle nostre risorse”.
 
La supervisione è di Fredo Valla, come l’hai coinvolto?
“Conoscevo i suoi lavori e la sua sensibilità. Gli ho semplicemente mandato una mail per dirgli che stavo scrivendo una sceneggiatura e chiedergli di leggerla, da studente a maestro. Fredo è stato molto disponibile e ha messo in campo tutta la sua esperienza di scrittore e sceneggiatore. Sono andato a Ostana a casa sua più volte e ci siamo parlati nelle varie stesure. È stato prezioso, da lui ho imparato tantissimo”.
 
Amore, vita e morte. E una quotidianità che non si ferma nemmeno in una situazione di guerra.
“Era quello che volevo far emergere, volevo mostrare che erano prima di tutto ragazzi. Parlano di donne e d’amore, scherzano, fantasticano. Se non fantastichi e non hai sogni a vent’anni, quando li hai? E se i vent’anni li vivi durante la guerra, ancora di più devi sognare un mondo migliore e combattere per la vita. Se no fai vincere la morte”.
 
Nonostante il finale, vince comunque la vita.
“Sì, anche se qualcuno purtroppo non ce l’ha fatta. Ma ha combattuto fino all’ultimo e combattere fino all’ultimo significa combattere per la vita, sempre. Non combatti contro la morte ma per vivere. La resistenza è un tributo alla vita”.
 
La neve ha condizionato quei fatti. La natura è madre e matrigna? La scena dove due ragazzi guardano le stelle e si domandano se anche lì ci sarà la guerra è molto leopardiana.
“La natura è vita, e va avanti nonostante la guerra. Non si ferma. E io ho cercato, quando potevo perché gli spazi in cui si vive durante la guerra sono spazi nascosti e angusti, di far entrare la natura nel film. La neve è bellissima ma ha tutti i suoi contro, e se devi scappare è un ostacolo. È la montagna stessa che racchiude il concetto di natura madre e matrigna”.
 
In questo film urla di più la poesia della violenza, che fa un rumore silenzioso.
“Son contento di questo. La violenza c’è stata e ho voluto farla vedere ma non spettacolarizzarla al punto di fare uno splatter. Non volevo fare un film alla Tarantino, per quanto lo ami. La storia è già violenta di suo e preferivo che uscisse l’immagine di questi ragazzi che si sono trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato, ragazzi che hanno fatto la scelta giusta sapendo bene i rischi che correvano”.
 
“Neve rosso sangue”, un titolo significativo.
“È un titolo evocativo. L’immagine di candore e purezza della neve macchiata di rosso, un contrasto cromatico che richiama il contrasto vita-morte, è emersa nelle testimonianza di una persona che due giorni dopo partecipò al recupero dei corpi e che mi disse che la neve, da 48 ore, era diventata rosso sangue. Quel rosso, colore che è simbolo di morte, passione politica e antifascismo, fuoco, violenza, sulla purezza del bianco è uno schiaffo in faccia”.

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