CUNEO - Sessant’anni dopo, Cuneo ricorda le “ali spezzate” sull’aereo del re d’Arabia

All’incontro voluto dal CAI anche Philip Rouse, figlio di una delle 18 vittime del disastro a Valdieri: “Grazie agli uomini che rischiarono la vita per trovare i resti”

in foto: Paolo Salsotto e Philip Rouse, figlio di una delle vittime
in foto: Elio Allario
in foto: Guido Gosso

Andrea Cascioli 18/05/2023 20:29

È la storia tragica di diciotto vite spezzate, prima di ogni altra cosa. Ma è anche una storia di valligiani e di soccorritori, degli uomini che per settimane sfidarono condizioni meteo proibitive per raggiungere il relitto del Comet SAR-7, l’aereo del re d’Arabia Ibn Aziz al Saud precipitato a Sant’Anna di Valdieri.
 
Un grazie molto speciale a tutti loro è arrivato da Philip Rouse, figlio del motorista di bordo Kenneth Richard Rouse, una delle diciotto vittime del disastro del 20 marzo 1963. Rouse era a Cuneo per un incontro voluto dalla sezione cuneese del CAI nell’ambito del Festival della Montagna, a sessant’anni dai fatti. Accanto al presidente del club alpino Paolo Salsotto c’erano due dei quattro membri ancora viventi della squadra del Soccorso Alpino che partecipò al ritrovamento del relitto, Elio Allario e Guido Gosso (gli altri sono Franco Sorzana e Gino Perotti), ringraziati con un messaggio dall’ambasciatore britannico in Italia Edward Llewellyn insieme agli storici Sergio Costagli e Gerardo Unia, che hanno tenuto viva la memoria di quanto accaduto in quella terribile notte sui cieli della valle Gesso.
 
Toccante la testimonianza di Rouse: “Avevo quattordici anni. A scuola un insegnante mi avvisò che dovevo uscire perché c’era stato un incidente. Trovai mia madre insieme a uno strano individuo, un tecnico della fabbrica degli aeroplani: si sapeva che l’aereo di mio padre era partito e non era arrivato, ma non cosa fosse successo. Passarono quasi due mesi prima di avere notizie precise”. Il Comet SAR-7 di re Ibn Aziz era un velivolo avvenieristico per l’epoca: un aeromobile da 74 tonnellate con un’apertura alare di quasi 35 metri, immatricolato solo l’anno precedente. Aveva la particolarità di montare i motori a fianco della fusoliera: erano i primi voli jet. A bordo due esperti piloti americani della Saudi Arabian Airlines, entrambi veterani dell’aviazione impegnati sul Pacifico durante la guerra. Più due inglesi che l’azienda costruttrice, la britannica de Havilland, aveva incaricato di supervisionare i colleghi.
 
Un primo volo, partito da Ginevra alle ore 21,45, atterrò a Nizza senza intoppi: a bordo c’era anche il sovrano, diretto al prestigioso hotel Negresco. Alle ore 2,55 l’aereo rientrato in Svizzera decollò una seconda volta. Avrebbe dovuto portare in Costa Azzurra gli altri membri della comitiva reale: tre precettori del principe Walid, due uomini d’affari, il capitano della Guardia Reale, un impiegato e un cuoco. Con loro viaggiavano un funzionario della sicurezza tedesco e nove membri dell’equipaggio, quattro americani e cinque britannici. Tutti uomini a eccezione della hostess Georgina May Coghlan, 32enne, londinese. Il volo fu regolare fino a metà percorso, quando improvvisamente la situazione meteo cambiò, con l’arrivo da est di una grossa perturbazione. Il Comet, a quel punto, deviò traiettoria di cinque o sei chilometri verso est, entrando dal Queyras in valle Stura e poi in valle Gesso: “Una deriva non controllata dai piloti” precisa Sergio Costagli. Alle ore 3,24 l’aereo impattò contro la mole della Punta Bifida, nella catena delle Guide. È un punto nodale che divide tre valloni, l’Argentera, il Soufi e il Lourousa: in ciascuno dei tre vennero ritrovati rottami e frammenti. Lo scontro con la montagna fu così tremendo da scaraventare la parte anteriore del velivolo una cinquantina di metri sopra la cresta, cadendo in prossimità del rifugio Bozano.
 
Cosa abbia davvero provocato l’incidente è solo uno dei misteri che avvolgono tuttora la vicenda. All’indomani del disastro il re dichiarò: “È un attentato, a bordo c’era una bomba”. L’accusa venne ripresa dai giornali, ma la commissione d’inchiesta avrebbe poi escluso qualunque esplosione a bordo. La responsabilità venne attribuita alle carenti comunicazioni tra i piloti e la torre di controllo di Marsiglia: “La causa ufficiale è l’errore umano: l’aereo volava circa tremila metri più in basso di quanto avrebbe dovuto” ricorda Gerardo Unia. Tuttavia, aggiunge, il re aveva buoni motivi per sospettare un’azione terroristica: già allora era in corso una lotta sotterranea tra il secondo figlio del fondatore della dinastia saudita, dissoluto e poco carismatico, e il fratello Faysal che lo avrebbe deposto nel novembre successivo. C’è comunque chi, come Guido Gosso, pensa che all’origine della tragedia possano esserci state cause strutturali: negli anni Cinquanta il Comet era il futuro dell’aviazione civile, l’aereo con cui i britannici avevano battuto perfino la concorrenza d’Oltreoceano. Tuttavia, già poco dopo l’entrata in funzione si erano segnalati errori di progettazione che ne avrebbero portato al ritiro sui voli di linea, dopo varie esplosioni in volo. “Era una lotta tra la de Havilland e le ditte americane che avevano già superato i problemi della lamiera” spiega Gosso, tra i primi ad arrivare sul relitto: “Non è mai stata fatta una perizia sui rivetti delle lamiere, ma io non credo che abbia impattato con la montagna”.
 
All’indomani dello schianto iniziarono a diffondersi leggende tuttora radicate. Si disse che a bordo c’erano 60 miliardi di lire, il mitico “tesoro di re Saud”. In realtà non fu mai trovato nulla di così prezioso, ma i testimoni confermano che un addetto dell’ambasciata saudita si recò subito sul posto con l’obiettivo di recuperare una borsa: conteneva documenti che a quanto pare gli arabi tenevano molto a riavere. Un altro piccolo mistero è legato al rinvenimento di un passaporto intestato a un membro della famiglia reale: ne dà atto un verbale di restituzione dei carabinieri. Non è mai emerso, tuttavia, che alcun parente del re viaggiasse sul secondo volo da Ginevra. Così come non c’era nessuna “concubina”, un’ipotesi alimentata dal successivo ritrovamento di numerosi abiti femminili tra i rottami della carlinga. “Non è vero neanche - aggiunge Unia - che l’aereo fosse stato depredato dopo l’impatto: lo strato di neve non è mai stato alterato prima dell’arrivo dei soccorritori”. Le operazioni di recupero, come si è detto, furono portate avanti in condizioni proibitive. Il giorno 21 partirono da Cuneo le prime squadre di soccorso guidate dall’ingegner Alberto Cavallo, primo delegato del Cnsas, e dall’alpinista Matteo Campia. Ma nel frattempo aveva cominciato a cadere la neve, che non avrebbe dato tregua ancora per tutto aprile. Il 28 marzo furono sospese le ricerche, dopo che alcuni resti erano stati trovati a San Lorenzo di Valdieri e a Desertetto. Esattamente un mese dopo, la scoperta di un pezzo dell’equilibratore in prossimità dell’albergo delle Terme indirizzò di nuovo i soccorritori. Le squadre a quel punto procedevano quasi a colpo sicuro e individuarono i rottami il 1 maggio.
 
“A nome delle diciotto famiglie, voglio esprimere riconoscenza agli uomini coraggiosi che hanno messo a rischio le loro vite per individuare il luogo della tragedia” ha detto Philip Rouse al pubblico presente, consegnando al presidente del CAI Salsotto una fotografia incorniciata che ritrae il velivolo. Il club alpino ha ricambiato l’omaggio con un piatto dipinto che reca il disegno del rifugio Morelli Buzzi, poco distante dal luogo del disastro. Lo schianto del Comet SAR-7 è il più famoso ma non l’unico disastro aereo verificatosi nell’area del Parco delle Alpi Marittime. In tutto, secondo le verifiche di Costagli, sono state 42 le vittime di incidenti a partire dal 1943: “Noi siamo stati sui luoghi di questi disastri. Sono valloni solitari, silenziosi, dove quando le ombre si allungano sulle creste si prova la sensazione di avvertire lo spirito, ormai placato, di coloro che sono morti”.

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