CUNEO - Splendori e miserie di chef Ugo Tognazzi

Tra risate e racconti di vita, il figlio Ricky ha presentato a Cuneo la riedizione de “Il Rigettario”: un viaggio nel lato più umano e gourmet del grande attore

Andrea Cascioli 08/12/2022 11:40

Non è un inedito, ma la riedizione di un piccolo “cult” quella che Ricky Tognazzi ha presentato in anteprima al pubblico di Scrittorincittà. Si tratta de “Il Rigettario”, ovvero la raccolta di ricette che suo padre Ugo, indimenticato interprete della commedia all’italiana e gourmet eclettico, diede alle stampe nel 1978.
 
Il sottotitolo recita “Fatti, misfatti e menù disegnati al pennarello” ed è proprio nei menù disegnati l’aggiunta più importante: la riedizione riporta in chiusura tutti gli originali, ritrovati in una cartellina. L’abitudine di idealizzare il cibo disegnando, racconta il figlio primogenito e prefatore, nasceva dai periodici soggiorni che l’attore si concedeva in una clinica dimagrante a Quiberon, in Bretagna, per emendarsi dalle consuete crapule: “Spesso partiva con l’amico Ferreri, a volte con un’amante. Era preparato al fatto che non dovesse mangiare e sublimava il cibo, si avviava come i bambini con una cartella carica di matite e pennarelli e passava il tempo a disegnare menù. Alla fine del soggiorno tornava a casa e per una settimana faceva solo roba dietetica, poi a un certo punto sbracava”.
 
 
La cucina come teatro, prima dei celebrity chef
 
L’appellativo di “rigettario” non indica, ovviamente, il rigetto per il cibo, che Tognazzi adorava: “Qualsiasi scusa - ricorda Ricky - era buona per invitare gente a cena: l’inizio di un film, la fine di un film, tutti i weekend quando era a casa. Il rigetto è invece quello per qualsiasi forma di conformismo e di regola. Al cinema ha fatto un sacco di film che non avrebbe nemmeno dovuto fare, frutto di incontri con registi all’epoca sconosciuti che ha aiutato a debuttare, compresi Marco Ferreri e Pupi Avati. Nella cucina era uguale, si lanciava presentandosi ogni volta con qualcosa di nuovo. Spesso non ci azzeccava nemmeno: in questo libro si salta di palo in frasca, ci sono menù veramente folli oltre che sempre esuberanti e ricchissimi”. La passione per la cucina nasce “per merito o per colpa” di Pat O’Hara, la ballerina britannica madre del suo primogenito: il patron della Ignis Guido Borghi aveva prestato una cucina alla compagnia teatrale di Tognazzi, per realizzarvi alcuni sketch. Finita la tournée, lui si portò tutto a casa: “Ma mia mamma, pur bravissima nei lavori domestici come attaccare prese o quadri, in cucina a detta di mio padre era capace a fare solo la ‘patata all’inglese’: ovvero ‘la patata bollita schiacciata col culo’”.
 
Così il protagonista di film come Il federale, La voglia matta e Amici miei trovò la sua consacrazione spirituale nella gastronomia: “La cucina per lui sostituiva il teatro, l’applauso a scena aperta, l’emozione di presentarsi senza rete davanti agli spettatori e strappare la loro ammirazione: questo era ciò a cui teneva di più”. Come chef dilettante, Tognazzi è stato per certi versi un innovatore: “Ha introdotto negli anni Settanta la cucina cinese, quando a Roma c’era un solo ristorante cinese. Ma inseguiva il chilometro zero ante litteram, anzi una sorta di autarchia: la ricerca dell’acqua nella nostra casa di Velletri fu un’avventura spaventosa. Faceva il cuoco in un’epoca in cui non c’erano i masterchef, c’erano i cuochi ciccioni con la parannanza. Perciò veniva anche un po’ dileggiato per questa passione”.
 
 
Pesce finto col cibo per gatti e cotechino allo zabaione: “Ma non era un avvelenatore”
 
Il teatro prediletto di trionfi e fallimenti culinari era “la Tognazza”, ovvero la dimora di Velletri. Nella casa delle vacanze a Torvaianica, invece, andavano in scena gli storici tornei di tennis che assegnavano “lo scolapasta d’oro” (“ne vinse molti Gassman. Una volta venne anche uno dei Rolling Stones ma non partecipò, si inguattò dietro alle palme e si fece una canna”). Tognazzi non avrebbe mai apprezzato il delivery perché, spiega ancora il figlio, la cucina per lui era soprattutto una scusa per stare insieme. Un’altra cosa che non ammetteva erano i giudizi negativi sui suoi manicaretti: “Lui sopportava qualunque critica sui film, ma se gli criticavi una ribollita impazziva: ha passato dieci anni cercando di far crescere il cavolo nero a Velletri, perché Monicelli lo rimbrottava dicendogli che una ribollita senza cavolo nero non era una vera ribollita”. Gli amici ovviamente lo sapevano bene e sapevano come colpirlo. In una delle cene tra colleghi attori, registi e “cinematografari”, su un tavolo lunghissimo e stretto, nacque la tradizione delle valutazioni creative. Non un punteggio, ma una scala di pareri codificati da Paolo Villaggio: si andava dallo “straordinario” alla “grandissima cagata”. Una volta letti i primi biglietti, Tognazzi li requisì infuriato dicendo che li avrebbe portati al grafologo, mentre Mario Monicelli raccoglieva reperti di cibo con le pinze perché sosteneva di volerli consegnare “all’istituto di criminologia”.
 
In qualche occasione, va detto, i fischi del loggione erano più che meritati. Altre volte gli occasionali crimini culinari finivano impuniti o addirittura apprezzati: è il caso del “pesce finto” servito come antipasto in un pranzo estivo. Avrebbe dovuto essere una mousse di tonno, ma per un tragico equivoco il cuoco scambiò gli ingredienti. Ad accorgersene fu proprio Ricky: “A un certo punto gli chiesi cosa fosse e lui, controllando, trovò nel cestino le scatolette del cibo per i gatti. La gente comunque l’aveva mangiato ed erano tutti contenti, così decidemmo di non dirlo. Dietro alle sue ricette però c’era una sincera passione, non vorrei dipingerlo come un avvelenatore”. Ovunque andasse, Tognazzi ritornava con qualche cibaria: dall’Africa, una volta, addirittura con bistecche di ippopotamo (“che poi cucinò alla pizzaiola, perché non sapeva come farle”). Da Cremona, sua terra natale, l’attore portava pregiati salumi e specialità locali: “Una volta tornò con ‘el ganasciun’, la pregiata ganascia di maiale: disse però che per cucinarlo ci voleva un invitato importante e rimandò più volte. Una sera finalmente lo trovò. Entrai in casa travolto da un odore di morte ancestrale, quello che penso avessero sentito quando hanno aperto la tomba di Tutankhamon: ci vollero due ore per convincerlo a buttarlo”.
 
A volte gli ospiti erano davvero di riguardo. In un’occasione il motoscafo su cui Tognazzi si riposava con il figlio a Porto Santo Stefano venne “abbordato” dal panfilo dell’avvocato Agnelli, desideroso di provare la sua famosa cucina insieme ai principi d’Olanda. Una volta salito a bordo del gigantesco yacht, però, il cuoco si accorse che in frigo c’era ben poco: un cestino di pomodori, una bottiglia d’olio, formaggio e una spigola. Con quei miseri ingredienti riuscì a preparare una pasta ribattezzata “le penne dell’Avvocato”: “La sintesi è che più sei ricco e meno ti danno da mangiare, un fatto tristemente vero: si mangia molto meglio a casa della povera gente”. In un’altra occasione arrivò a Velletri una telefonata dalla vicina Castel Gandolfo: annunciava addirittura l’arrivo al desco tognazziano del pontefice Giovanni XXIII. In omaggio ai natali bergamaschi del Santo Padre fu imbandito un menù a base di polenta e castagne. Il papa poi non venne, ma il padrone di casa raccontò a tutti gli amici la storia omettendo il finale. Disastri e delusioni a parte, a detta del figlio i piatti che venivano meglio allo chef Ugo erano le zuppe, realizzate con le verdure del suo orto: “Il piatto a cui sono più affezionato è un minestrone di verdure freddo che faceva d’estate, nelle giornate più calde, aggiungendo pesto e formaggio: lo chiamava ‘la genovese’. Si inventò anche le farfalle fucsia, una semplice pasta alla parmigiana nel cui impasto frullava la barbabietola. A Natale invece il rito era il cotechino: ricordo un anno in cui debuttò il cotechino con lo zabaione!”.
 
 
Il coraggio di rivendicare “il diritto alla cazzata” (anche in cucina)
 
Molte ricette venivano “evocate” dal film su cui si stava lavorando, come il menù di pesce realizzato per Casotto di Sergio Citti, commedia a sfondo balneare che lo vedeva insieme a Gigi Proietti e a un’adolescente Jodie Foster. Altre volte invece erano addirittura le cene a ispirare i film, come ne La grande abbuffata di Marco Ferreri. La scena delle ostriche, con la gara tra Marcello Mastroianni e Tognazzi, fu preceduta da una cena a quattro la sera precedente. Tognazzi si presentò con la moglie Franca Bettoja, il regista Ferreri e la di lui moglie Jaqueline Perrier da “Régine”, uno dei ristoranti parigini più in voga all’epoca. Era già mezzanotte e i quattro vennero respinti alla porta, sebbene Ferreri si fosse premunito di dire che con lui c’era il già celebrato - anche in Francia - Ugo Tognazzi. La moglie francese del regista (che “non era simpatica, era francese”, maligna divertito Ricky) ne approfittò per ricordare che con Mastroianni, la sera prima, erano stati fatti accomodare subito: “Ugo allora si disegnò i baffi con una matita per il trucco e disse a Ferreri: ‘Suona di nuovo, dì che c’è Marlon Brando’. Il cameriere si mise a ridere e li fece entrare”.
 
Il gusto per lo scherzo, non meno dei saltuari oltraggi al buon gusto in tavola, talvolta infilava Tognazzi in situazioni grottesche. Su tutte la celeberrima vicenda delle false prime pagine de Il Male, architettata dalla rivista satirica all’indomani della maxi retata tra i capi dell’autonomia operaia il 7 aprile 1979. L’attore accettò di posare in casa sua a Velletri per un servizio nel quale si ritraeva il suo finto arresto in qualità di “capo occulto delle Brigate Rosse”. I “carabinieri” erano in realtà noti collaboratori de Il Male e si poteva notare, a un’occhiata meno superficiale, che il “grande vecchio” veniva trascinato fuori da un frigo dismesso. Tanto bastò, comunque, per suscitare uno scandalo nazionale. Terrorizzato dalle conseguenze, il protagonista della burla si chiuse in casa per quindici giorni prima di concedere finalmente un’intervista: al giornalista prescelto spiegò in tono solenne che rivendicava “il diritto alla cazzata”. A distanza di oltre quarant’anni, il figlio si sente di giustificare quella scelta: “Rivendicare il diritto di fare cose folli, di sbagliare, è parte del segreto dell’artista: l’artista deve innanzitutto sentirsi libero di fare cazzate”. Perfino ai fornelli, ça va sans dire.
 
 
Pubblicato in origine sul numero del 1 dicembre del settimanale Cuneodice - ogni giovedì in edicola

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