BORGO SAN DALMAZZO - "Tra i bambini nel campo non c'era amicizia: a guidarci era solo l'istinto di sopravvivere"

Ospite ieri a Borgo San Dalmazzo Lidia Maksymowicz: classe 1940, fu internata ad Auschwitz all'età di tre anni. Utilizzata come cavia da Josef Mengele, riuscirà miracolosamente a sopravvivere

Andrea Dalmasso 07/12/2022 09:20

Se penso ai giorni nel campo, penso a giorni tristi. Tra noi bambini non c’era amicizia, non c’era solidarietà: eravamo guidati soltanto dall’istinto animalesco di sopravvivere”. È uno dei passaggi più toccanti, tra i tanti, del racconto di Lidia Maksymowicz: classe 1940, polacca, aveva tre anni quando fu internata insieme alla madre nel campo di sterminio di Auschwitz. Riuscì miracolosamente a salvarsi, e secondo gli studi storici risulta essere la bambina sopravvissuta più a lungo all’interno del più tristemente celebre tra i lager nazisti. Ieri, martedì 6 dicembre, Lidia è stata ospite a Borgo San Dalmazzo, presso la biblioteca “Anna Frank”, per portare la sua testimonianza. Una testimonianza che è raccolta in un libro, “La bambina che non sapeva odiare”, e che è stata anche trasformata in un breve docufilm, proiettato ieri a Borgo San Dalmazzo prima dell’incontro introdotto dalla sindaca Roberta Robbione.
 
Lidia, come detto, entrò ad Auschwitz insieme ai nonni, immediatamente inviati alle camere a gas, e alla madre, colpevole di aver aderito alla Resistenza bielorussa. Le due furono immediatamente separate: Lidia diventò una delle cavie per gli esperimenti pseudo-scientifici del dottor Josef Mengele. Uscirà dal campo nel gennaio del 1945, dopo la liberazione, per mano a una donna che non è sua madre: una polacca, senza figli, che decise di adottare una delle “orfanelle" rimaste sole in un campo disseminato di cadaveri. Solo nel 1962, dopo diciassette anni, Lidia sarebbe poi riuscita a riabbracciare la vera madre, pure lei sopravvissuta e stabilitasi nell’Unione Sovietica, che non aveva mai smesso di cercarla ma che non poteva raggiungerla a causa della "cortina di ferro” che le divideva. “Io davo ormai per scontato che fosse morta. Nel campo eravamo quotidianamente a contatto con la morte, mi sembrava naturale, dopo tutti quegli anni in cui non mi aveva cercata”, ha raccontato l’ottantaduenne di fronte ad una biblioteca raramente così gremita.
 
Un racconto commovente, partito dal difficile adattamento alla vita “normale” dopo la liberazione: “I ricordi facevano male. Per tutti ero ‘la bambina di Auschwitz’. Talvolta coprivo con un cerotto i numeri che ho tatuati sul mio braccio: mi facevano sentire inferiore, mi facevano pensare alla vita nel campo. Per certi versi era come non ne fossi mai uscita. Per molto tempo (tredici mesi, ndr) la vita nel campo di sterminio era stata la mia normalità. Addirittura negli anni successivi, a scuola, insieme agli altri bambini mi ritrovavo a ricreare per gioco le situazioni che vivevo ad Auschwitz: le maestre ci interrompevano, quello era un orrore che doveva appartenere al passato”. Le chiedono il perchè del titolo del suo libro, “La bambina che non sapeva odiare”. Risponde con disarmante serenità: “L’odio non porta mai a nulla di buono. Odiare mi avrebbe provocato altra sofferenza. Se avessi portato con me un desiderio di vendetta non sarei riuscita a vivere una vita normale, come invece ho fatto. È l’odio che alimenta le guerre”.
 
Tra i ricordi più nitidi quello della liberazione: “Uno dei primi ricordi che la mia mente pesca quando penso a quel periodo è la tazza di latte con una fetta di pane che ci fu offerta dai soldati dell’Armata Rossa che arrivarono per primi a liberarci”. Poi la quotidianità di Auschwitz: “Noi bambini eravamo trattati come gli adulti. Vivevamo circondati da ratti e insetti, in condizioni disumane. Una fetta di pane nero al mattino, una scodella di zuppa a pranzo, l’appello ogni giorno. Venivamo chiamati per numero, ogni giorno ne mancava qualcuno: significava che era morto. Noi non avevamo alcuna reazione: eravamo abituati ad essere ogni giorno a contatto con la morte”.
 
Infine, alcune riflessioni sul suo ruolo di testimone, sul ripetersi ciclico delle atrocità viste durante la Seconda Guerra Mondiale: “Non pensavo di dover rivedere le tragedie viste in quegli anni, invece continuano a ripetersi, in Ucraina come in altre parti del mondo. Non dobbiamo restare indifferenti. I lunghi periodi di pace a volte tendono ad allontanarci da certi pensieri, ma dobbiamo ricordare che la pace non è mai scontata. Ritengo un miracolo il fatto che io sia uscita viva da Auschwitz: sento che sono stata salvata proprio per portare avanti la mia testimonianza”.
 
L’incontro di ieri è stato organizzato in collaborazione con l’associazione “La Memoria Viva”, che ha prodotto il docufilm, da un’idea del borgarino Roberto Dutto, che nei mesi scorsi si è occupato, in diversi viaggi, di portare aiuti in Polonia alla popolazione ucraina in fuga dalla guerra.

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