BARGE - Il poeta metalmeccanico e il fascino delle cose

“La pozzanghera che si credeva il cielo” è il primo disco solista di Federico Raviolo, registrato in una stanza d’hotel. Un viaggio intimo e malinconico nella verità delle parole e nella musica elettronica

Francesca Barbero 23/07/2022 16:51

Pubblicato in origine sul numero del 7 luglio del settimanale Cuneodice - ogni giovedì in edicola:
 
Federico Raviolo, originario di Barge, è operaio metalmeccanico, musicista e poeta. Già voce e autore dei testi della band folk rock dei Mechinato, “La pozzanghera che si credeva il cielo” è il suo primo disco solista.
 
Fai l’operaio metalmeccanico ma sei anche musicista e poeta. Cosa ti ha portato in fabbrica?
“L’unica cosa sicura è che faccio l’operaio metalmeccanico e che produco pezzi per il motore delle auto. A 15 anni ho perso mia madre e fino ai 23 anni ho vissuto con mio padre, che non ha mai appoggiato le mie scelte. Ho frequentato l’Istituto d’Arte di Saluzzo e avrei voluto fare l’università ma ero troppo giovane e non ho avuto il coraggio di impormi per continuare gli studi. Così sono entrato in fabbrica, per necessità. Tutte le settimane ci passo circa 40 ore, mi sono abituato alla routine e allo stipendio che arriva tutti i mesi e lì dentro trovo l’ispirazione nelle cose comuni, vere, per scrivere i miei pezzi di narrativa. Il mio lavoro artistico è basato su una vita normale e un lavoro comune. Scrivere per me è una salvezza, non potrei fare solo l’operaio”.
 
“La pozzanghera che si credeva il cielo” è il titolo del disco.
“Cercavo un titolo suggestivo per esprimere la mia visione per cui tutte le cose piccole, le cose basse possono avere valore. Non c’è alcuna spavalderia della pozzanghera nel credersi cielo, anche se così potrebbe sembrare, perché la pozzanghera è davvero il cielo secondo la mia idea. Ho avuto dei dubbi ma poi ho scelto la prima soluzione”.
 
Otto tracce, 8 spoken o 8 poesie messe in musica. Parole incisive, essenziali, senza orpelli, a volte crude, danno vita a piccole fotografie che ti portano dentro un’atmosfera intima e malinconica. C’è uno sguardo fotografico nella tua scrittura.
“Quando scrivo cerco di mostrare quello che vedo e mi piace rendere l’immagine nitida con le parole. Quello a cui tendo è far fare all’ascoltatore un piccolo viaggio mentale dentro aspetti intimi, che sono miei ma che potrebbero poi essere di tutti. Quando parlo di mio padre, è vero, è il mio ma potrebbe essere il padre di tutti. Anche il tuo”.
 
Come arrivano le immagini?
“Non ho mai un’idea precisa. In genere parto da una suggestione o da una frase letta in un libro e poi le immagini arrivano come un flusso, che non so mai dove mi condurrà. La mia scrittura è un percorso: arriva un’immagine e scrivo, poi la abbandono e la riprendo dopo un po’ di tempo cambiando direzione. Per me scrivere è un viaggio necessario per poter tirare fuori un pezzo di me stesso. Quasi come se stessi dipingendo un quadro. E una volta che se riuscito a tirarlo fuori quel pezzo è lì e non sei più tu. Te ne sei liberato”.
 
Nel disco ci sono alcuni temi ricorrenti: il viaggio in macchina, la pioggia, la malattia, la morte, lo scorrere del tempo, tuo padre. Il linguaggio attinto dal mondo operaio, e del lavoro, si fonde con elementi della natura come in quel ‘temporale che si mette in mutua’ di Ernia Iatale. A differenza di altri artisti, il risultato che ottieni non è disumanizzante ma l’opposto.
“Credo sia fondamentale parlare di ciò che si vive. Non potrei parlare d’altro. Ho una vita comune, molto banale se vogliamo, e non c’è sempre tutta questa suggestione. E mi rendo conto che quando scrivo di cose banali (come la guarnizione del lavandino che salta o la panda bollata di mio padre), queste cose acquistano un valore che è il valore giusto che dovrebbero avere. Non potrei scrivere di eternità o di vita dopo la morte, non ho la cultura per poterlo fare. Scrivo di ciò che ho davanti agli occhi tutti i giorni e che conosco”.
 
Però la tua poesia delle cose fa riflettere su queste tematiche. Ne “La notte prima” parli delle telefonate, fatte sempre alla stessa ora, alla struttura dove tuo padre era ricoverato. Lì ci sono il tempo scandito, la morte e la malattia.
“Nelle cose c’è tutto e c’è la verità: vita, morte, amicizie, rapporti e pensieri. E il tempo è lì in mezzo che scorre mentre tu invecchi e ti trasformi”.
 
La malattia e la morte tornano anche in “Bere lentamente”, qui c’è anche una riconciliazione con tuo padre.
“Mio padre negli ultimi anni era cambiato, veniva ai miei concerti e ci eravamo avvicinati, anche se non me l’ha mai detto apertamente. Con lui, adesso, sono molto in pace e so che lui lo è con me”.
 
“Nelle case le cose” è ‘solo’ una lunga lista di oggetti ma in quella lista c’è la vita che scorre.
“Sono sposato, ho due figli e in casa abbiamo un sacco di cose. A volte è un disastro, e non si riesce a mettere in ordine. In quel pezzo ho immaginato gli oggetti che abbiamo in casa e la vita che possono avere una volta che la porta è chiusa e non c’è più nessuno. Le cose intime che elenco si possono trovare nelle case di tutti e, in fondo, è come se le case di tutti fossero un po’ la tua casa. È il discorso che facevamo prima”.
 
Oggetti che parlano del tempo che passa. Possiamo provare a controllare il caos e il disordine delle cose ma loro ci sopravviveranno.
“Romano Vola, poeta originario di Alba, ha scritto ‘Quando ti rendi conto che il pentolino del latte ti sopravviverà’. Ed effettivamente è proprio così. Gli oggetti ci sopravviveranno e credo stia proprio lì il fascino delle cose. Cose che appartenevano a qualcuno, che ci appartengono e che apparterranno a qualcun altro. Le cose si possono rompere, e allora le butti, ma se non si rompono ci sopravviveranno. Anche se sono solo cose”.
 
Della musica si è occupato Gabriele Scarpelli. E se il disco è un viaggio, è significativo che sia stato registrato nella stanza numero 203 dell’Hotel Barrage di Pinerolo dove Scarpelli vive.
“Gabriele ha lavorato sulla parte musicale elettronica partendo dalle registrazioni della mia voce con una grande sensibilità. È stato il giusto compagno di viaggio. Ha fatto davvero un gran lavoro, riuscendo a creare la giusta alchimia tra musica e parola, per amplificare con la melodia significati e capacità di trasportare all’interno del testo. Registrare il disco in una stanza d’hotel, come in un fermata del viaggio, ha dato un senso a tutto”.
 
Nel disco citi Basile e Benvegnù. Altre influenze musicali?
“Più che le influenze c’è stato un momento della mia vita fondamentale per il mio percorso musicale, e per arrivare a questo disco. Dall’hard rock degli anni ‘70, che ascoltavo da ragazzo, sono passato ai cantautori americani, e poi a quelli italiani, perché avevo bisogno di parole e la sola energia non mi bastava più. A segnare questa svolta un viaggio in auto, a Praga, e un negozio di dischi dove comprai ‘The Boatman’s Call’ di Nick Cave, colpito dalla bellezza della copertina e senza sapere chi fosse. L’abbiamo ascoltato rientrando in Italia ed io ero così emozionato che piangevo. Un disco che ha cambiato i miei gusti musicali e che mi ha iniziato a un percorso di scoperta della letteratura attraverso la musica. Poi ho scoperto che Nick Cave aveva scritto ‘E l’asina vide l’angelo’ e che la descrizione della nascita di due gemelli che vivono in culle separate era un riferimento al suo gemello, nato morto. Anch’io, come lui, sono gemello e il mio gemello è nato morto. Una coincidenza che mi ha affascinato e segnato particolarmente”.
 
E i riferimenti letterari?
“Sono sempre stato molto attratto dall’America letteraria e amo tantissimo Kerouac e la beat generation. Ma ho tantissimi riferimenti. Potrei citare John Fante, che ho scoperto ascoltando ‘Il ballo di San Vito’, l’album di Capossela. O Salinger, Raymond Carver, Sylvia Plath e Wislawa Szymborska. Tra gli italiani Montale, Campana, Soffici, Moravia, Baricco. O ancora Raffaello Baldini e Walter Galli, poeti dialettali romagnoli”.

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