CRISSOLO - Secondo gli esperti la parete nord est del Monviso è fragile: prevedibili nuove frane

La relazione pubblicata da Arpa Piemonte e Sifrap: tra le cause l'intensa fratturazione della roccia e la degradazione del permafrost

foto Arpa
foto Arpa

Andrea Dalmasso 10/04/2021 10:14

Le frane che hanno interessato la parete nord est del Monviso a partire dal mese di dicembre del 2019 non resteranno casi isolati: l’area è fragile e continuerà ad essere instabile. È quanto emerge dalla relazione pubblicata a fine marzo dal Dipartimento Rischi Naturali e Ambientali dell’Arpa Piemonte e dal Sifrap, il sistema informativo frane regionale. L’attività di monitoraggio era iniziata dopo il 26 dicembre 2019, quando un’importante massa si staccò dalla sommità del torrione Sucai, una struttura rocciosa ubicata sul versante nord est del “Re di Pietra” la cui estremità superiore raggiunge all’incirca i 3.200 metri di quota: “Il più esteso fenomeno franoso registrato sul Monviso dal 1989”, lo hanno definito gli esperti. La relazione è stata stilata dopo sopralluoghi sul posto e anche mediante osservazioni aeree tramite drone, con il supporto dei tecnici dell’Arpa Valle d’Aosta. 
 
La zona di parete crollata a dicembre del 2019 è posta circa 200 metri a sud est del Canalone Coolidge, il cui ghiacciaio sospeso crollò improvvisamente il 6 luglio 1989. Un crollo fragoroso, che venne registrato persino dalla stazione sismica di Stroppo, in valle Maira, a circa 20 km di distanza in linea d’aria. La frana del dicembre 2019 ha coinvolto un ammasso roccioso esteso verticalmente per circa 150-160 metri, ampio circa 40 metri alla sua sommità e circa 70 in prossimità della sua base: “Non è possibile stabilire con certezza la profondità del corpo roccioso che si è mobilizzato, - si legge nel rapporto pubblicato dall’Arpa sul suo sito - ma si può ragionevolmente supporre che non superi i 10 metri. Si può stimare che la volumetria di roccia destabilizzata dalla frana sia compresa tra 60 mila e gli 80 mila metri cubi. Il settore di parete dove si è sviluppata la frana aveva già dato segnali di attività nel passato, come testimoniano i numerosi blocchi di grandi dimensioni presenti alla sua base. Risulta evidente un marcato incremento dello stato di attività nel corso della prima metà del secondo decennio del XXI secolo”. 
 
Nel corso del 2020 il settore di parete destabilizzato dal crollo ha poi manifestato una residua attività che si è protratta fino agli inizi dell’estate, con distacchi per lo più di dimensioni modeste: successivamente questa zona della parete nord est del Monviso sembra essere entrata in una fase di maggior stabilità, situazione che però “deve considerata temporanea data la notevole fratturazione dell’ammasso roccioso”. Per questo, come detto in apertura, le frane dell’ultimo anno sono destinate a non rimanere casi isolati. Nel corso dell’estate - segnala inoltre l’Arpa - ha subìto un incremento di attività per frane di crollo una porzione della stessa parete ubicata più a sud, quindi più prossima al Colle di Viso. 
 
La frana non ha causato danni diretti di alcun tipo dal momento che la zona di distacco e di accumulo hanno caratteristiche tipicamente di alta montagna, non interessate da opere antropiche. Tuttavia sullo stesso versante su cui si è riversato il materiale franato si sviluppa il frequentato sentiero che dal Pian del Re consente di raggiungere il Colle di Viso e poi il rifugio Quintino Sella. Le valutazioni morfologiche effettuate portano a ritenere improbabile il coinvolgimento del sentiero da parte di eventi di crollo della stessa magnitudo di quello del dicembre 2019: tuttavia non si può escludere la possibilità che un blocco di dimensioni straordinarie possa superare la zona a debole pendenza su cui normalmente si arrestano i materiali crollati e quindi riesca ad impegnare il ripido versante sottostante fino ad investire il sentiero. Sulla base di queste considerazioni nel corso dell’estate 2020 il Comune di Crissolo ha emesso un’ordinanza di chiusura del tratto di sentiero soggetto a rischio, dirottando gli escursionisti sul limitrofo e sicuro sentiero che dal lato est del Lago Chiaretto si congiunge con il sentiero a monte della zona esposta alla frana.
 
Le cause del fenomeno franoso individuate dagli esperti sono essenzialmente due. Innanzitutto l’intensa fratturazione della roccia che caratterizza in generale il massiccio del Monviso, - e in modo più specifico alcune aree della parete nord est - motivazione senza la quale non è possibile immaginare un movimento come quello verificatosi a dicembre 2019. In secondo luogo la degradazione del permafrost la cui presenza, là dove gli ammassi rocciosi sono particolarmente fratturati, esercita un’azione cementante attraverso la presenza di ghiaccio nelle fratture. 
 
In primis, quindi, è la configurazione stessa della parete a renderla soggetta a fenomeni franosi: nel suo rapporto Arpa parla di “porzioni rocciose caratterizzate da una elevata alta densità di fratturazione. Questa configurazione conferisce all’ammasso roccioso un elevato grado di destrutturazione che produce un’alta predisposizione all’instabilità da frana da crollo”. Un ruolo importante, però, è giocato anche dai cambiamenti climatici cui stiamo assistendo, che hanno impatti importanti sugli ambienti montani: “I dati di temperatura per le Alpi piemontesi mostrano una tendenza all’aumento maggiore rispetto alla temperatura media globale e si conferma la tendenza all’accelerazione del riscaldamento”.
 
Il permafrost - terreno o roccia che presenta temperatura inferiore a 0°C per due o più anni consecutivi - è considerato un indicatore privilegiato del cambiamento climatico e per questo è oggetto di studi e attività di monitoraggio da parte della comunità scientifica: in questo contesto si inserisce la serie di attività di ricerca ed analisi che Arpa Piemonte ha avviato a partire dal 2006 con l’obiettivo di migliorare le conoscenze sulle caratteristiche e sulla distribuzione del permafrost nelle Alpi piemontesi. 
 
La degradazione del permafrost e del ghiaccio che fa da “collante” su terreni rocciosi fratturati, dovuta all’aumento delle temperature, è secondo Arpa una probabile concausa del crollo: “I dati del monitoraggio del permafrost in Piemonte evidenziano una tendenza di incremento delle temperature nel sottosuolo in cui il permafrost è in fase di degradazione anche a 3 mila metri di quota”. Su questo tema, però, verranno effettuati ulteriori approfondimenti: “Ulteriori affinamenti delle elaborazioni dei dati termici degli ammassi rocciosi, combinati con i trend climatici e con le analisi dello stato di fratturazione, consentiranno nel prossimo futuro di dettagliare meglio le relazioni tra degradazione del permafrost e instabilità dei versanti in alta quota, al fine di ottenere modelli predittivi utili per la gestione del rischio”. 
 
QUI la relazione completa pubblicata sul sito dell'Arpa.

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